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In partenza per l’India

Marta è una ragazza di 19 anni originaria della parrocchia di Ospizio mentre Silvia è una ragazza di 20 anni che frequenta la parrocchia di Campagnola. Entrambe partiranno nel mese di febbraio per l’India per soggiornarvi 6 mesi accolte dalle Case di Carità. Abbiamo chiesto loro di condividere le loro aspettative

Marta ci ha scritto: parto perché vorrei conoscermi più a fondo, mettermi alla prova senza i soliti punti di riferimento. Parto con il desiderio di essere aperta a ciò che imparerò nell’incontro con persone e culture diverse dalla mia.

Parto sostenuta dall’affetto, dall’amore di tante persone che mi hanno aiutato a diventare grande e mi hanno sostenuta nei passaggi difficili del mio cammino. Porto con me tutti i dispiaceri, le delusioni, le fatiche e i dolori che ho vissuto in questi anni: questi mi hanno aiutato a capire che sempre si può ripartire, mi hanno reso più forte e capace di essere consolazione anche per altri.

Io dalla missione mi aspetto di essere più cosciente e consapevole di chi ho intorno e di quello che succede negli altri paesi del mondo. Dall’India mi aspetto di avere un piccolo cambiamento nella mia vita e di trasmetterlo a tutte le persone che ho intorno.

Silvia ci ha risposto: spesso ci viene chiesto di raccontare il perché di una cosa, il perché di una scelta. Oggi mi è stato chiesto di provare a spiegare il perché ho deciso di partire.

Qualche anno fa non avrei mai pensato di essere arrivata a fare una scelta così grande.

Non sono mai stata una ragazza che emergeva molto, anzi, tendevo molto a nascondermi dietro agli altri non valorizzando quelli che sono i miei doni.

Nel mio percorso ho potuto fare esperienze e incontrare persone che mi hanno aiutata e mi hanno fatto scoprire doti di me stessa che neanche io conoscevo.

Partire perché vorrei conoscere le realtà che ci circondano e perché vorrei avere uno sguardo diverso da quello che abbiamo con tutta la nostra vita frenetica e piena di cose.

Partire perché vorrei mettermi alla prova, perché ho bisogno di avere fiducia e di credere in me stessa. Forse è proprio questo di cui ho più bisogno, fare un’esperienza che mi faccia conoscere più a fondo e mi apra gli occhi a nuove scoperte.

Il mio primo desiderio era quello di partire per il Madagascar, ma quando mi è stata proposta l’India, non mi sono fatta troppi interrogativi, ho deciso comunque di accettare pur non sapendo bene cosa potesse aspettarmi. Quello che oggi spero è di tornare più forte e più aperta verso l’altro.

Giovedì 24 gennaio, alle ore 21.00, celebreremo la Messa in san Girolamo per accompagnare nella preghiera l’esperienza di Marta e Silvia e accogliere definitivamente Don Riccardo Mioni, rientrato dalla  missione in Brasile.

con i bambini di Anorambato, mani fangose e gioiose

Madagascar: le mani ed i gesti che fanno bene al cuore

“Mani, prendi queste mie mani, fanne vita fanne amore…”

 

 

In questi 25 giorni di campo missionario in Madagascar ne ho incontrate davvero tante di mani che hanno lasciato in me un segno.
Mani pronte a riabbracciare con gioia incontenibile un’amica che in questi mesi è stata luce.
Ha permesso di far nascere in me tante domande, tanti desideri e fra questi, anche quello di andare là a rincontrarla e incontrare.

Mani sapienti di Sasà, ospite della casa di carità di Tongarivo, che mi ha preso per mano e mi ha guidato a scoprire le bellezze nascoste di quell’oasi di pace, come ad esempio un piccolo camaleonte in un orto fatto con tanta cura.
Mani di Edmund, ospite invece della casa di carità di Ambositra, con gli occhi che lacrimavano e, sotto la luce del sole, luccicavano. Sono mani che mi hanno stretto con gioia e che hanno fatto sparire tutto il resto intorno: quelli che noi chiamiamo i nostri difetti, la mia ignoranza della lingua malgascia, le chiacchiere dei miei compagni e degli altri ospiti. In quel momento c’eravamo solo io e lui e le nostre anime che si incontravano in silenzio.

Mani sporche e segnate ma instancabili degli artigiani di Ravinala che ho incontrato lungo la strada. Grazie alla loro creatività lavorano materiali grezzi per dare vita a gioielli in alluminio, a piccole pochette di rafia, a statuette intagliate di legno, a macchinine in latta.
Mani volenterose dei volontari di RTM ad Antananarivo e a Manakara, che progettano e si impegnano con anima e corpo per lottare contro problemi sociali importanti come la lebbra.

Mani stanche, arrabbiate, tristi, rassegnate, ma anche resistenti degli uomini carcerati di Ambositra e degli ospiti del villaggio terapeutico di Ambokala, che si sono rianimate giocando insieme a noi a pallavolo e a calcio.
Mani calde e fangose di tutti i bambini che ho incontrato, che mi hanno schizzato con l’acqua della cascata di Anorombato, che hanno giocato con me alla Ludoteca Papillon, che mi hanno accompagnato a conoscere il villaggio di Ampasimanjeva.
Mani contente di piccolini che mi hanno imitato nei gesti dei bans al campo estivo alla ferme di Analabe, che hanno acchiappato forte i giochi portati nel cortile di Suor Luigina ad Ambositra, che sono così abituati ad essere autonomi da rifiutare il mio aiuto per spostarsi da una passerella all’altra ad Anatihazo.
Mani di bambine che hanno una cicatrice che assomiglia tanto alla mia o che si sono tenute forti al mio braccio mentre nella schiena avevano dietro una piccola sorellina e ancora l’altro pollice in bocca.
Mani di tutti i ragazzini che ci hanno salutato alla fine con gratitudine e senza lamentarsi, sapendo forse loro, fin dall’inizio, che tutto ha una fine?

Mani perseveranti di chi ha deciso di restare, di dedicare la sua vita a quel pezzetto di terra perché “è davvero tutto regno di Dio”.
Quindi eccole le mani ancora forti e tenaci di Don Pietro Ganapini, che mi hanno donato un libretto sul suo progetto della DIDEC, fatto stampare apposta per noi.
Ma anche mani umili, pazienti e materne di Suor Giacinta, di Suor Luigina e di tutte le altre masere che mi hanno accolto, che lavorano nell’ombra e sono così semplicemente madri e sorelle di tutti.
Mani laboriose dei monpera orionini di Anatihazo, che con la loro scuola professionale di falegnameria, fondata da Don Luciano Mariani, provano a dare speranza ai giovani che nascono in uno dei quartieri più poveri della capitale.
Mani sagge dei monpera e dei capi villaggio del gruppo degli Zafimaniry, che resistono nelle foreste e che provano a costruire qualcosa grazie alla solidarietà e alla provvidenza. Sono le loro mani grate, che ci hanno ringraziato così tanto per essere andati fino a là, in quel posto sperduto, solo per incontrarli.
Mani umili di Don Giovanni Ruozi, che hanno saputo indicare i pezzettini di quella chiesa, non solo fisica, di Manakara costruita con tanta fatica e passione.

Mani pronte ad accogliere, dei volontari, che mi hanno mostrato ancora con stupore i loro progetti e il punto in cui sono arrivati nella loro faticosa ricerca quotidiana.
Mani uniche dei miei compagni di viaggio, che hanno saputo tutte esserci, sostenere, accarezzare, coccolare, abbracciare, scherzare, condividere, sfiorare il cuore, per portare un po’ i pesi insieme.
Le loro mani a cui ho potuto affidarmi fiduciosa nei momenti di difficoltà e che mi hanno stretto tanto forte prima di lasciarmi alla fine andare.
Mani speranzose di tutti noi insieme che, durante le messe, nel momento della pace, si sono strette forti e si sono alzate in alto per poterle offrire tutte a Lui.

Ringrazio il Signore per avermi donato occhi e cuore per vedere il bello in ogni piccolo gesto di amore durante questo viaggio e per percepire la sua presenza dietro ad ognuna di queste mani.
E alla fine, ho capito che aveva ragione Suor Roberta della casa di carità di San Giuseppe: “Cercalo, non smettere mai di cercarlo, è faticoso, ma è l’unica cosa per cui vale la pena vivere!”.

Elisa Carpanoni

Il panorama dell'oceano e delle sue spiagge disabitate

Quel benedetto sorriso

“Tutto iniziò così. Quel sorriso, quel maledetto sorriso”. È l’incipit di una celebre serie tv americana,
“13 reasons why”.
Ma non è questo ciò di cui parlerò.
Ho scelto questa frase perché è perfetta per Giulia. Così è nata la sua amicizia con Michel, con un semplice
sorriso, innocente e irrazionale, fatto da dietro le quattro sbarre metalliche della cella di isolamento in cui
era stato rinchiuso al suo arrivo qui ad Ambokala. Come con molti altri pazienti, la diffidenza iniziale nei suoi
confronti è svanita rapidamente, spazzata via da quel candido sorriso che ha aperto in lei le porte del cuore,
ora pronto ad ascoltare, capire e avvicinarsi.
Per più di una settimana Michel ha vissuto in cella, dispensando allegria durante i pasti grazie ai suoi canti, ai
balli improvvisati e a infantili giochi che ci divertivamo a fare assieme (il famoso cucù di cui parla Giulia).
E basta poco, un piccolo assaggio della sua genuinità, per rendere contagioso quel sorriso, forse solo frutto
della sua malattia o dei farmaci somministratigli, o causato dalla droga e dall’alcool di cui spesso ha abusato,
o forse, ancora, frutto di uno spiraglio di lucidità.
Ma poco importa l’origine di tale gioia, specialmente a Giulia, la quale, superate le paure di rimanere sola a
gestire un ospedale psichiatrico e i suoi pazienti, è riuscita nell’impresa più difficile di tutte: sentirsi a casa e
accolta. E non perché è “matta” come molte delle persone che la circondano ogni giorno, ma perché invece
di compatirle pietosamente, le considera uguali a sé, trattandole di conseguenza, scherzandoci liberamente,
eliminando i pregiudizi, senza però cadere nel buonismo o nel bigottismo che troppo spesso annebbiano
l’opinione delle persone, chiudendo le loro menti e i loro cuori e rendendole stagne alla scoperta e alla
crescita.

Lei è rimasta critica, in grado di divertirsi con i pazienti, ma anche di rimproverarli quando necessario.
Qualche giorno fa hanno scoperto Michel mentre beveva alcolici e fumava erba, il tutto trascurando la
propria terapia farmacologica. Giulia non ci ha pensato due volte a sgridarlo, ad arrabbiarsi e a mostrargli la
propria delusione, palesemente visibile sul suo volto per alcuni giorni. E proprio questo comportamento, il
porsi al pari degli altri, ha fatto sì che Michel capisse i propri errori e riprendesse a seguire diligentemente la
terapia, mostrando segni di miglioramento, almeno per ora.
E chissà, che magari, alla fine, la miglior cura per certi casi di malattia mentale non sia altro che la presenza
di un amico, con cui condividere la quotidianità e la follia e che ti faccia dire “Ciao amica mia, […] sono felice
che tu sia qui”.
Enrico Cerio, RTM
Mankara, il 04/09/2018.

Da Giulia: i mesi sono volati via…

Sono “già” a metà (visto il ritardo, un po’ più di metà).
Perché “già” e non “ancora”?!
Perché questi mesi sono volati via. Sono stati mesi pienissimi, tante esperienze e tante sensazioni.
Sono stati mesi di felicità assoluta, ma anche di tristezza, perché in fondo un pezzo di cuore è lì da voi e con voi!

Sono stati mesi pieni di volti nuovi, diversi, che all’inizio pensi di non riuscire mai a distinguere, ma che piano piano diventano la tua nuova famiglia.
Ambokala ne è un esempio lampante. L’impatto è stato forte all’inizio, ma adesso vorrei essere là, in ogni momento, anche adesso che sono sul letto in casa a scrivere, io vorrei essere là.
A fine luglio Enrica è tornata in Italia e ad inizio agosto se ne sono andate anche la Suora, Diana e Berthine. PANICO!
Ad Ambokala siamo rimaste l’assistente sociale ed io. Tantissime le paure: temere di non riuscire a far nulla, affrontare una nuova sfida, combinare guai, ma prima fra tutte la paura di non riuscire a dire una parola!
In realtà, agosto è volato via e i timori con esso! Ho iniziato a parlare e sto trovando il mio modo di stare con i pazienti, spesso non capendo nulla di quello che tentiamo di dirci, il momento migliore per ridere tutti insieme!

Tutti insieme ad Ambokala

TUTTI INSIEME: pazienti, cuoche, bambini, noi volontari, nessuno escluso!
Una cosa che credo di aver imparato in questi mesi è che spesso siamo portati a guardare queste persone con pietà, quasi come se provassimo compassione per loro. Non credo sia giusto. Loro hanno bisogno di essere trattati come tutte le altre persone, che siano poveri o ricchi, puliti o sporchi, bambini o adulti, sani o pazienti dentro alle celle d’isolamento!
Si, ad Ambokala ci sono le celle di isolamento!!!
TUTTI hanno bisogno di essere trattati allo stesso modo!
Un esempio? Michel!
Appena arrivato è stato messo nella cella di isolamento. Parlava di continuo, sembrava una radio. Alternava momenti in cui era arrabbiatissimo con il mondo e momenti in cui bastava guardarlo e diventava un bambino indifeso.
Avete presente quei bambini con quel visino che guardi e non puoi far a meno di sorridere?!
Così è stato con Michel!
Michel è quello che da dietro le sbarre della cella di isolamento fa “cucù” per farti ridere; è quello che ti sorride ogni giorno appena ti vede, dicendoti: “Ciao amica mia, è da tanto che non ci vediamo, sono felice che tu sia qui!” e magari ci siamo visti il giorno prima; Michel è quello che canta per tutti, se solo glielo chiedi; è quello che va al mercato con la mamma e riesce a farsi voler bene anche da un cane randagio; Michel è questo e tantissimo altro e mai mi permetterei di prenderlo in giro o di guardarlo con compassione, anche perché non ne avrei motivo!
Michel è unico e forse ce ne vorrebbero un po’ di più di Michel al mondo!!
Un abbraccio,
Giuli
P.S.
Quasi dimenticavo la cosa più importante! Il giorno dopo che ho inviato la lettera il mese scorso, Celà, il ragazzino di cui vi ho scritto, si è presentato a casa nostra con la sua mamma ed i suoi fratellini minori. Insomma, è tornato a casa!!!
Vive con la mamma e il suo nuovo marito, che per il momento sembra volerlo in casa e lo porta anche a lavorare con sé!
Prossimo obiettivo?! Ad Ottobre inizia la scuola, chissà, magari ha voglia di cambiare ancora di più il suo futuro!

Quale cambiamento? Quale speranza? Quale futuro?

Antananarivo, 01.09.2018

Siamo arrivati alla fine del nostro percorso; pensiamo e ci chiediamo ormai tante cose, che si sommano, si moltiplicano, si incrociano, che si confrontano, si condividono… sempre alla ricerca di qualche risposta. Ve le offriamo così come ci vengono le nostre dodici e più prospettive mischiate, composte in un dialogo senza fine. E chissà se qualche domanda se la sta ponendo qualcun altro con noi in questo momento…

Ci siamo raccontati l’esperienza nei progetti della missione che abbiamo conosciuto…

Io mi sento spesso osservata, è un po’ strano, ma chissà cosa pensano di noi!?

Sono sguardi che mi incuriosiscono, chissà cosa ci sta dietro. Un po’ di diffidenza?

Sicuramente questo riflettere su cosa pensa l’altro aiuta a decentrare il nostro punto di vista.

L’ospedale di Ampasimanjeva mi ha lasciato un magone dentro, mi ha smosso molte emozioni, è stato un piacere aiutare Chiara a risistemare il dispensario, ma c’è molto da fare, ci sono tante persone in difficoltà.

A me invece ha fatto venire tanta rabbia, basterebbe poco per risolvere problemi per noi piccoli. Mi ha colpito molto vedere che il ragazzo a cui ho donato il sangue stava meglio e… parlava ora italiano!

Pensa se ci fosse un mio caro lì nell’ospedale…

Mentre facevamo il giro, mi sono rivista io adolescente che mi lamentavo per il servizio italiano e mi sono fatta un po’ schifo. Infatti, mentre facevamo il giro, non ce la facevo più, mi sentivo troppo in colpa e sono andata un po’ in camera, poi sono tornata

.

Ma quanto è difficile trovare il proprio posto in queste nuove situazioni!

Io oggi alla casa di carità di Ambositra mi sono sentita al posto giusto nel momento giusto, mentre prima, visto che non avevo mai sentito neanche parlare delle Case di Carità, mi sono sentita un po’ esterna e non avevo capito bene come funzionassero, oggi mi sono sentita come in famiglia, come se fosse normale essere e stare lì. Mi sono tanto sentita in famiglia. Però hanno forse un diverso concetto di famiglia? Ognuno fa quello che può e dà il proprio contributo come può?

Qui c’è proprio il “mora mora” (il fare le cose piano piano), bisogna accettarlo?

Mi sono sentito che qui potevo andare piano, non dovevo subito correre a fare qualcos’altro come in Italia e quindi mi sono fermato a dare da mangiare a quel ragazzo in carrozzella alla Casa di Carità ad Ambositra e sentivo che lui si fidava di me e che forse mi aveva preso in simpatia. Gli altri mi dicevano che ci stavo mettendo troppo, ma io non avevo fretta e sono stato lì con lui, cucchiaio dopo cucchiaio.

Mi sono fermata con Edmund, un ragazzo ospite della Casa di Carità di Ambositra, a scambiare una o due parole in italiano, per la mia ignoranza della lingua malgascia, e poi siamo rimasti a guardarci negli occhi e a sorridere in silenzio e… per un momento è scomparso tutto quello che c’era intorno a noi e c’eravamo solo io e lui. È la lingua l’unico mezzo per comunicare?

 

 

 

 

Stasera, dopo il pomeriggio passato giocando a basket alla casa dei fratelli di Ambositra, ho scritto troppo, davvero tanto, pensa che non scrivevo così dalla prima elementare!

Loro, a differenza nostra, stanno sempre insieme, sono molto uniti, i bambini li vedi molto coesi. Per giocare a calcio con i bambini e i malati di tubercolosi ad Ampasimanjeva, mi avevano dato una casacca diversa da vazaha e io alla fine non l’ho messa, però ho sentito la diversità. Quando gioco con loro a calcio, dopo sono piena di lividi, ma mi si apre il cuore.

Come ci comportiamo con chi chiede l’elemosina? E con quelli che vendono ai margini della strada? Dopo aver pranzato in un hotely gasy (ristorante per vazaha) ad Antsirabe, ci sono venute incontro delle persone che chiedevano l’elemosina e mi sono sentita male… io avevo mangiato e avevo la pancia piena e loro invece? È stata un’esperienza molto dura.

Mi ha colpito molto l’ospedale psichiatrico di Ambokala, la donna dietro alle sbarre, anche se ci sono delle giuste motivazioni ed è solo per un periodo, mi è sembrato per un attimo di essere in un carcere e poi le camerate come in un ospedale, i parenti che per fare assistenza devono dormire per terra…

 

Ci siamo interrogati su cosa si potrebbe fare là…

Le persone che incontriamo qui ogni giorno vivono la loro condizione come normale?

Sì, stanno bene così, per loro è bello così!

Ma forse perché non conoscono altro, non hanno altre aspettative, non hanno una percezione completa di cosa vuole dire vivere meglio?

        

Quanta sporcizia, quanto disordine, quanta povertà poco dignitosa, ma cosa vuol dire per loro e per noi dignità?

A cosa può portare la tecnologia qua? E da noi? Ho paura che distrugga anche qui le relazioni belle, vere e dirette che invece noi abbiamo potuto instaurare. È stato bello ricominciare a giocare con i bambini per davvero, direttamente e non attraverso uno schermo.

        

Mi fa rabbia pensare che ci sono tanti bambini con tante potenzialità non sfruttate e che non avranno mai la possibilità di metterle a frutto. Se chiedi ad un bambino malgascio: “Che cosa vuoi fare da grande?”, che cosa risponderà?

Si vede che hanno bisogno di figure di riferimento, diventano autonomi troppo presto.

Alla fine, mi viene voglia di abbracciarli tutti!

Sono belli i loro sorrisi, danno un senso di accoglienza, mi ha colpito il loro voler creare subito un contatto vero ed autentico. Sono sereni, nonostante tutto?

Loro stanno lungo la strada per stare insieme agli altri, per incontrare l’altro?

Quanta rabbia che mi viene a pensare che non fanno nulla per cambiare la loro condizione, che stanno lì fermi, seduti!

Mi ha colpito vedere così tanti schiavi manuali, come ad esempio l’ambiente di lavoro degli artigiani che lavorano l’alluminio in condizioni non umane… e dobbiamo riflettere insieme: quale sarà il nostro ambiente di lavoro?

Ma mi ha colpito anche la forza dell’uomo sul lavoro come ad esempio per quanto riguarda le suore.

Ma cosa si può fare? Ma cosa possiamo fare?

Abbiamo provato a darci qualche risposta?!?

Alcuni progetti di RTM non vengono più finanziati perché non danno risultati visibili subito… non si può chiedere a qualcuno, ad una popolazione, qualcosa che non può ancora dare e toglierle anche quel poco che è riuscita con fatica a dare.

Bisogna avere rispetto per chi prova a fare qualcosa anche se non va alla fine bene.

Ci vorrebbe una rivoluzione culturale partendo dalla scuola e dai bambini o da un colpo di stato.

Riesco a vedere oltre la sofferenza qui, forse per il mio lavoro, ma il livello di frustrazione inevitabilmente si alza e mi vengono in mente mille cose che si potrebbero fare nella nostra ottica, ma che magari non hanno senso qui? La via è forse quella di mettere nelle condizioni di scegliere e di fare come vogliono loro, non di dire loro come fare o fare le scelte al posto loro.

Il Madagascar ci può insegnare davvero tanto. Sarebbe bello portare il Madagascar a casa nostra e non il contrario.

La cosa più bella è stata la figura missionaria di Don Pietro Ganapini, sarei stato ad ascoltarlo per ore, se non fossimo dovuti andare vià. Siamo anche rimasti tutti tanto colpiti dai volontari, dai preti, dalle suore, dai consacrati, da chi ha fatto la scelta di stare ad operare qui. Mi sembra che abbiano una vocazione molto forte e si sente.

Ma lavorano per il progresso economico di questo paese o per altro? Dovrebbero operare per il benessere materiale, per quello spirituale o per entrambi?

Quale logica dobbiamo seguire nel vivere la nostra vita? Quella occidentale dell’accumulazione e della moltiplicazione o quella della semplicità e dell’umiltà?

Io sono venuto qui per seguire la seconda, per ritrovare le cose semplici e anche forse più antiche.

Per me sicuramente la prima logica perché porta ad un benessere materiale e quindi aiuta a vivere meglio.

Sento che devo entrare in punta di piedi per conoscere queste persone, questo popolo. Forse basta solo stare accanto e affiancarsi?

Abbiamo riflettuto insieme con l’aiuto di Don Simone Franceschini sul Vangelo del 15.08 (Lc 1, 39-56) ad Anorombato e quindi sulla vocazione di ognuno di noi…

Ma io non sono un salvadanaio! Durante la pausa dopo il mio servizio in ospedale, avevo solo bisogno di parlare con qualcuno che mi ascoltasse e che si interessasse a me, a come stavo… invece alla fine della chiacchierata mi ha chiesto dei soldi… ti chiedono sempre dei soldi… ma noi vazaha siamo per loro solo i bianchi con i soldi? Io non ho scelto di essere ricca, non vorrei essere il ricco che il Signore lascia a mani vuote.

Il Signore in questo Vangelo non ci vuole punire, ma ricompensare invitando a riconoscere e a rimettere al centro le cose essenziali, ciò che conta veramente.

Ci dice che saranno gli umili ad essere innalzati, da speranza e ci libera questo pezzo di Vangelo!

È molto bello pensare che il Signore innalzi le suore, i volontari, tutti gli umili, è consolante.

Ma perché sono dovuta venire fino a qua per trovare l’umiltà? Anche a Reggio Emilia ci sono tante persone umili, basta cercarle!

Io non sono venuta qui per capire qualcosa sulla mia vita o cercare, ma semplicemente per conoscere questa realtà e dove tutto è cominciato. È vedo che è tutto molto bello!

Ora riesco più a ringraziare, a riconoscere e ad avere la consapevolezza delle cose belle che vivo, come l’opportunità di questo viaggio. La domanda che mi pongo è: Maria ha avuto paura? E anche: come ha fatto a riconoscere che quello era il suo ruolo, la sua missione.

Ho tanta paura ad affidarmi. Cosa vuole il Signore da me? Cosa vuole che io faccia?

A volte mi chiedo cosa ci faccio qui? Oggi sento di aver fatto la cosa giusta, ieri pensavo che era meglio tornare a casa, cosa devo fare?

Ma qual è la mia casa? Cosa devo chiamare casa? Casa di qua, casa di là, non ci capisco più niente!

Quanto è difficile farsi aiutare come Elisabetta da Maria! Ho provato cosa vuol dire essere incinta e aver bisogno di aiuto anche solo per allacciarsi le scarpe. Ma quanto è difficile chiedere aiuto per me?

Ci siamo posti tante domande che forse solo all’apparenza sono alternative…

Ha senso continuare a seminare anche se con fatica oppure ha senso non aver più speranza e pensare che sia un paese solo per volontari?

Basta la vocazione o bisogna anche tener conto dei limiti che i volontari che operano in Madagascar ci hanno mostrato quando non vedono i miglioramenti? Come ad esempio operatori che rubano medicinali, popolazione che non capisce il tuo lavoro, malgasci stipendiati che non fanno il loro lavoro…

I volontari si vede che possono provare anche loro rabbia, che diventa spesso rassegnazione… ma come fanno poi a ripartire con umiltà? Hanno davvero tanta tenacia!

È un bisogno nostro quello di vedere subito i risultati oppure ha un senso?

Bisogna concentrarsi solo sulle potenzialità o anche considerare le possibilità qui per i malgasci?

Bisogna denunciare queste condizioni oppure accettare questa realtà così com’è?

Ha senso fare un confronto con la nostra realtà oppure no?

 

Ma alla fine di chi stiamo parlando? Di noi? Di loro? Di tutti?

Abbiamo visto cose che fanno ripensare alla nostra storia, che ci portano a ritoccare la nostra visione e le nostre aspettative, capire i nostri limiti, mettere in discussione la nostra visione.

Ad alcune abbiamo provato a dare una risposta, ma ve le offriamo così aperte, perché la ricerca non finisce mai…

Francesco, prima di continuare il suo percorso con sua moglie Silvia insieme a Don Olivier, ci aveva consigliato di continuare a mettere sul tavolo tutte le emozioni che avremmo provato da quel momento in avanti e allora noi… abbiamo continuato e continuiamo.

Sappiamo che il Signore è lì, sempre con noi, che conosce tutti i nostri pensieri, le nostre emozioni, le nostre domande e quindi  glieli affidiamo. Gli chiediamo anche di non smettere di farci interrogare sul senso della nostra missione qui, oggi, su questa terra e di permetterci di leggere i cartelli stradali che pone sulla strada della vita di ognuno di noi.

I campisti del Madagascar alla ricerca

Manakara, una missione comune

Qui a Manakara abbiamo frequentato la lezione di sport del lunedì con gli ospiti dell’ospedale psichiatrico di Ambokala.

Ginnastica con gli ospiti dell’ospedale di Ambokala

Lorenzo ci ha saputo accompagnare con leggerezza di cuore e ironia facendoci muovere i muscoli, non solo fisici, in sintonia.

 

 

 

 

 

Insieme a Giulia e Chiara abbiamo costruito ponti e strade di speranza, abbiamo respirato il profumo dell’Oceano Indiano, ricevendo così il grande regalo di poter fermarci a contemplare la bellezza dell’infinito e della creazione.

 

Panorama dell'Oceano Indiano a Manakara

 

La Confiserie di Manakara

Abbiamo assaggiato le marmellate vendute nel negozietto della diocesi di Reggio a Manakara, dove si commerciano caffè, saponi, olii essenziali, miele e tanti altri prodotti, frutto del lavoro di donne, altrimenti disoccupate.

 

 

 

 

 

 

 

Abbiamo visitato l’ufficio e il centro culturale di RTM. Ora ci lavorano Enrico e Tania che ci hanno parlato delle difficoltà che incontrano nel provare a cambiare le cose in profondità e nel ricevere finanziamenti per continuare a lavorare con le autorità malgasce su temi di grande importanza.

Abbiamo avuto la possibilità di accompagnare i volontari di RTM a fare una sensibilizzazione sulla cura della malattia della lebbra in un villaggio qualche chilometro più in là, dove ci siamo fatti prendere dai sorrisi e dalla gioia contagiosa dei bambini incontrati.

Giochi con i bambini nel villaggio

Abbiamo conosciuto Luciano che ci ha parlato dei suoi progetti e della sua vocazione, che ci ha trasmesso il senso dell’esserci sempre per gli altri, con umiltà, in silenzio e nell’ombra.

Abbiamo visitato quell’oasi di pace della Ferme di Analabe‚ un posto dove ognuno può dare il proprio contributo, dove può ritrovare il contatto con la bellezza della natura e dove c’è spazio di recupero, di progettazione e di incontro.
Proprio qui, una volta all’anno viene organizzato un campeggio di tre giorni con i ragazzi dei vari distretti della parrocchia di Manakara che‚ finalmente‚ possono stare insieme ed essere bambini, imparando attraverso il gioco. E’ stato un privilegio aver condiviso, anche solo per un giorno, questo momento.

La chiesa costruita da don Giovanni Ruozi con l’aiuto della diocesi di Reggio

Abbiamo visto la luce del Signore nella chiesa nuova di Gesù Misericordioso costruita con tanto amore per volere di Don Giovanni. Nonostante la grandezza della chiesa, ci racconta che alla domenica si può far fatica a trovare un posticino per stare insieme alla comunità e al Signore.
Mentre ci parlava, potevamo sentire la sua gioia, il suo averci messo anima e corpo, la sua umiltà e obbedienza per la preparazione del suo ritorno in Italia.

Presto, anche Damiano avrà la possibilità di iniziare il suo percorso lì. Gli mandiamo un forte e caloroso abbraccio, ringraziandolo per il suo essere sempre pronto a fare e per aver condiviso con noi momenti del campo molto forti che ricorderemo con il sorriso sulle labbra.

Infine, pensavamo che…
forse le persone che abbiamo incontrato qui hanno un filo rosso che le collega, una missione comune: camminare mano nella mano con il Signore, facendo rifiorire persone, piante, animali, ridando la vita, essendo sempre alla ricerca, provando a crescere e maturare, tentando poi di accompagnare anche gli altri in questo cammino.
Ringraziamo il Signore per averci dato la possibilità di fare questi incontri che ci interrogano, ci smuovono e ci lasciano tanta speranza.

Dal Madagascar – ragazzini al mercato, Giulia Farri e Cela’

Luglio 2018

Ciao a tutti!
Questo mese le parole faticano un po’ ad uscire quindi mi affiderò anche stavolta ad una persona,
precisamente un ragazzino, raccontandovi la sua storia, un po’ meno divertente di quella di Ricot!
I due bimbetti che vedete in foto sono Iabelen (il più piccolino) e Celà!

Celà, il protagonista di questa storia, con il suo amico Iabelen

Il “protagonista” di oggi è Celà.
Ha 14/15 anni, nemmeno lui lo sa, strano eh?! Stando qui però scopri che è una cosa usuale non sapere la propria età, spesso anche i genitori non lo sanno e più l’età avanza più è difficile avvicinarsi
alla presunta cifra esatta!
La prima volta che ho incontrato Celà ero
con Enrica al mercato, a comprare il riso per Ambokala, si sono avvicinati lui e un altro ragazzotto sordo-muto per chiederci qualcosa da mangiare, Celà non parlava, faceva solo gesti per farsi capire da noi e dall’amico, fingeva di essere muto anche lui, un po’ per comodità e un po’ per comunicare con il suo compare!
Da quel momento Celà è entrato a far parte di quelle persone che vedi una volta e non ti scordi mai, ha iniziato a venire al centro ragazzi di cui si occupa Lorenzo in cui io faccio servizio al mercoledì pomeriggio, piano piano ho iniziato a conoscerlo un po’ meglio.
Celà fa parte di un gruppo di 5/6 ragazzetti che dorme e vive al mercato, cosa che per la maggior parte dei malgasci è normale, ma che per me non lo sarà mai, faccio fatica a farmene una ragione, bambini da soli al mercato, senza niente se non i pochi vestiti che hanno addosso.
Celà è un ragazzo dolcissimo con un forte bisogno di attenzioni e non manca una buona dose di furbizia come in ogni quattordicenne del mondo.
Un paio di settimane fa è venuto a cercarci a casa perché stava male, aveva la varicella e abbiamo iniziato a curarlo. Per cinque giorni ogni mattina ci incontravamo e gli portavo le medicine della giornata e piano piano è guarito. Una delle ultime mattine ne abbiamo approfittato, l’ho portato con me al centro d’ascolto di Diana e abbiamo cercato di conoscere un po’ la sua storia per provare ad aiutarlo, cercare di capire se aveva ancora un famiglia, se era stato abbandonato o se era scappato. I suoi genitori si sono separati, la mamma vive con un altro figlio e il suo nuovo marito che a dire di Cela è cattivo, lo tratta male e non lo vuole in casa.
Il padre, anche lui risposato con 5 figli, lo abbiamo trovato e siamo riuscite a parlargli…non mi è piaciuto, io non riesco a fare queste cose senza inevitabilmente affezionarmi alle persone, in particolare ad un ragazzino solo che ha un padre che si mette a ridere quando gli dici che il figlio è stato molto malato ed è dovuto venire a cercare noi perché non sapeva dove trovare la sua famiglia e che se gli chiedi se è disposto a riprenderlo con lui se si comporta bene ti risponde “No, lui non va bene!”.
Come?! È tuo figlio, lo hai messo al mondo tu, come fa a non andare bene?! Come fanno lui e la madre a dormire di notte sapendo che loro figlio dorme al mercato da solo, senza nulla e al freddo, che ruba per rivendere ed avere i soldi per riuscire a mangiare!
Abbiamo sperato per un attimo di riuscire a togliere un ragazzino dal mercato, dargli almeno una casa ed un tetto sotto cui dormire ma non è così semplice, stiamo valutando altre opzioni ma si vedrà perché Celà deve essere il primo a voler far qualcosa per cambiare la sua vita perché un’altra cosa mi sconvolge abbastanza: parlando con questi ragazzi capisci che loro al mercato stanno “bene” hanno scelto di farlo, nel limite del possibile, sono ambientati e si sono creati una famiglia tutta loro, ovviamente i lati positivi per loro sono tanti: vivere senza regole, senza orari, senza dover studiare o lavorare e stare tutto il tempo con gli amici giocando e scorrazzando in giro; diventa quindi difficile rinunciare a tutto questo e andare magari in una comunità in cui si studia e si deve stare a delle regole, devono proprio essere loro a volerlo, tu non puoi fare altro che proporglielo e cercare di farli
ragionare sul loro futuro.
In tutta questa storia abbastanza triste, diciamolo, c’è una cosa che mi fa sorridere e che mi piace tantissimo: questi ragazzi sono così legati da essere diventati una vera e propria famiglia, quando Celà aveva la febbre gli sono stati dati dei vestiti pesanti per stare un po’ più coperto, i suoi vecchi vestiti dove sono finiti? Il giorno dopo, dopo averli lavati, erano addosso ad uno dei suoi amici del mercato che prima aveva dei vestiti completamente distrutti e da buttare, anche quando è ora di mangiare, si incontrano e mettono insieme quello che ognuno di loro ha trovato, dal cibo ai soldi che la gente gli dà e si dividono tutto per poter mangiare qualcosa tutti!
Da questo posso proprio dire che è proprio chi ha meno che condivide di più e spesso ti insegna di più! Non sono contenta del risultato, ma ho imparato tanto dalla storia di Celà e so che sarà una di quelle storie che non mi scorderò mai e che mi voglio portare a casa!
Mi sembra giusto condividerla anche con voi sperando che arrivi anche solo una briciolina di quello che ho provato vivendola!
Giulia

In partenza per il campo estivo in Madagascar!

Eccoci qua,
anche se fisicamente non ci siamo mossi molto, se non di qualche chilometro attorno alla nostra città, il cammino in questi mesi è stato lungo e intenso.
Che bello è stato provare a conoscerci e riconoscerci un po’ in quella scintilla che lentamente, ma costantemente, ci brucia dentro!
Sento che ognuno di noi ha tanta voglia e desiderio di comunione, tanta sete di conoscenza diretta che può diventare testimonianza, che apre gli occhi e inevitabilmente ‘slarga il cuore’, come mi disse una volta Padre Danilo.
Emozioni forti e pensieri in circolo oggi in questo aeroporto che ci seguiranno dopo i 7947 chilometri che abbiamo davanti.
C’è soprattutto una frase di una canzone che mi si è attaccata addosso e ora non mi molla più: “Io sarò con te dovunque andrai.”

Ci siamo interrogati in questi mesi sul nostro ruolo durante il campo, abbiamo chiesto quale potesse essere la nostra ‘missione’ e la risposta che alla fine ci siamo dati è il non voler essere supereroi o solamente fare, ma essere umili e provare solamente a STARE. Quest’ultima parola ci ha fatto tanto ridere inizialmente, ma stare dove, come, perché? Poi anche un po’ arrabbiare e impaurire, ma saremo pronti solo a STARE? Siamo davvero preparati a saper accogliere con umiltà, senza giudizio e a cuore aperto tutto ciò che incontreremo?
In qualche importante incontro ho ricevuto parole di luce su questo: guarda negli occhi, soffermati sui particolari, tocca con mano, dài e ricevi quello che riesci, cercalo, non avere timore, contempla e apprezza quei colori così belli e intensi, mettiti in ascolto, parla con chi è stato chiamato a fare scelte forti, raccogli storie, stai, stai e ancora stai lì, nel presente di quello che vivi.
E allora ho capito quanto siano importanti gli incontri, quelli veri ed autentici.

E quindi oggi siamo qui, ci proviamo e ringraziamo per il dono grande di questo viaggio, per questo sorriso di gioia profonda che ci dipinge il viso, che ci fa commuovere e sentire uniti, carichi di aspettative, ma ormai ci siamo… forse siamo pronti ad andare.

I partenti per il campo missionario in Madagascar (09/08-02/09)

Oggi vi presento Ricot!

Lo so… sono in ritardo!!
Ma stranamente questo mese, grazie all’aiuto delle veterane, avevo già deciso cosa scrivere, dovevo solo trovare il tempo per concentrarmi e raccontarvi una storia, a tratti anche molto divertente!
Oggi vi voglio presentare Ricot!

Ricot ha 30 anni ed è arrivato al VTA (Villaggio Terapeutico di Ambokala) a fine marzo, controllando, negli scorsi giorni, ho anche scoperto che è arrivato ad Ambokala lo stesso giorno in cui io sono arrivata a Manakara, coincidenze!?
Per chi non lo sapesse il VTA si occupa della riabilitazione e del reinserimento sociale dei malati psichiatrici.

Ricot è epilettico e prima di entrare in ospedale viveva e dormiva al mercato insieme alla sua mamma, non sappiamo che danni abbia provocato la mancata cura dell’epilessia ma crediamo che Ricot abbia un piccolo ritardo.
Perché non ne siamo convinte? Perché Ricot è intelligentissimo, o furbissimo mettiamola come vogliamo, così furbo da riuscire a simulare uno dei suoi attacchi alla perfezione senza che nessuno sospetti di nulla!

E non contento è un gran pigrone!!! In tre mesi, ha sempre trovato la scusa più o men o perfetta per saltare tutte le attività organizzate per i ricoverati, dallo sport del lunedì all’orto del venerdì!

Una cosa gli interessa più di tutte… le medicine!!!
E voi direte: meno male che gli interessano, sarebbe peggio se non le prendesse!!
Giusta osservazione, se questo non portasse a trovarselo in magazzino/ufficio almeno una volta al giorno!
La prima volta che mi ha visto mi ha detto: “Vazaha! Marary ny tratra aho!”
Vazaha vuol dire straniero (quindi non sapeva neanche il mio nome!!) però sapeva che avrei potuto procurargli delle medicine…un fenomeno!!!

Ricot è fortissimo, ogni volta che lo vediamo arrivare abbiamo “paura” della scenata che ci potrebbe fare davanti, la moda del momento è inginocchiarsi ai piedi dell’Enrica ripetendo “Pardonnez-moi, pardonnez-moi!” per poi rifilarci una scusa perfetta per non partecipare a qualunque cosa stia per iniziare, la risposta classica dell’Enrica è: “ Ricot! Ma alzati da lì, non sei un cane da doverti inginocchiare per terra!” allora lui si alza e tutti scoppiamo a ridere!
Un paio di settimane fa, mentre ci raccontava la sua storia abbiamo scoperto che è stato in carcere quattro anni qui a Manakara, accusato di aver rubato molti di soldi ad un vasaha, peccato che vedendolo ora dubitiamo fortemente sia stato proprio lui a rubarli! Sua madre ci raccontava che non è mai riuscita ad andarlo a trovare in carcere perché è stata per quattro anni a letto senza riuscire a muoversi dopo essere stata picchiata, Ricot è stato quattro anni da solo senza neanche una visita! Allora la domanda sorge spontanea: “Ricot ma come stavi in carcere?” e lui a differenza di tutti quelli che escono ci ha risposto: “Io sono stato bene, mi davano da mangiare, quando volevo una sigaretta me la davano, non c’era bisogno di lavorare e stavo bene!” Credo di non aver mai conosciuto una persona pigra come lui, basta che abbia il cibo e un posto dove dormire e lui è contento ahahah!

Non so se sono riuscita a rendere giustizia alla storia di Ricot ma è veramente una persona divertente, pigra e che non farebbe nulla dalla mattina alla sera!

“Ricot! Ma cosa ti piace fare?”
“Dormire ovviamente, io dormirei tutto il giorno!”
La sua prospettiva di vita? Trovare una donna ricca e vivere da mantenuto, quando ce lo diceva rideva anche lui! In realtà vorrebbe davvero una famiglia e dei figli, abbiamo provato a spiegargli che sarà difficile avere tutto questo se non trova un lavoretto, sicuramente dormendo tutto il giorno farà fatica ad avverare il suo sogno!

In qualche modo ha funzionato, ha iniziato a fare alcune delle attività che gli vengono proposte, solo quelle da vero uomo ovviamente: al lunedì ha iniziato a fare sport, ogni tanto cerca di defilarsi ma lo beccano, l’orto non se ne parla è ancora troppo faticoso forse, però va al corso di falegnameria, si siede e guarda gli altri lavorare perché lui è già capace di fare tutto ovviamente, però dai ragazzi, sono progressi anche questi!!
In tutto questo, due settimane fa mi sono accorta di avere una pulce penetran te in un piede (evito la descrizione, nulla di grave, è già la seconda! Fa solo parecchio schifo!!) dovevo farmela togliere da qualcuno, l’Enrica era impegnata e allora chi meglio di Ricot il supereroe poteva togliermela!!!?

È stato bravissimo, il giorno dopo voleva un regalo in cambio ma su questo sorvoliamo! Da quel fatidico momento però, ho fatto un salto di qualità sono passata da “VAZAHA” a “MA CHERIE MALALAKO” e ne sono al quanto onorata!!
Fine.

Questa è una piccola parte della storia di Ricot ed è una piccola parte anche della mia vita qui, quindi d’ora in avanti mi piacerebbe ogni mese raccontarvi la storia di una delle migliaia di persone fantastiche che incontro qui!
Un abbraccio forte,
Giulia

P.S. questo mese ho ricevuto una mail inaspettata che mi ha resa felicissima e mi ha portato a sentire un paio di persone e a parlare con loro per ore al telefono di qualsiasi cosa!

È stato bello scoprire di essere dentro il loro cuore anche solo un pochino, non me lo aspettavo assolutamente!

Sono ancora felice?! Certo che si!!!

Volontari in Madagascar: due nuovi giovani

Due giovani volontari si stanno preparando a partire per il Madagascar quest’estate. Sarà il Vescovo Massimo Camisasca a conferire loro il mandato missionario il prossimo giovedì 31 maggio in occasione della Festa del Corpus Domini che si celebrerà a Reggio Emilia.  Appuntamento quindi in Cattedrale alle ore 19 per la celebrazione della S. Messa, cui seguirà la processione sino in Ghiara.

Ilaria Squicciarini, 19 anni, catechista ed educatrice della parrocchia di Montecavolo, maturanda in Scienze umane al liceo Matilde di Canossa, andrà ad Ampasimanjeva. Per un anno si occuperà dei bambini seguiti dalla Fondation Médicale attraverso la Scuola “Papillon”, che effettua attività ludiche e scolastiche.

Damiano Galavotti, 21 anni, di Carpi, educatore ACR della parrocchia di Sant’Agata della sua diocesi. Ha già toccato la terra malgascia in occasione di due campi di lavoro e ora vi ritornerà per restarci un anno, svolgendo servizio a Manakara, presso la Fattoria Agricola “Saint Francois d’Assis” di Analabè.

Gli abbiamo chiesto di raccontarsi, per conoscerli più da vicino.

una sorridente Ilaria

“Mi chiamo Ilaria, abito in un paesino che per me rappresenta il centro del mondo, Montecavolo. Le mie giornate si dividono tra stalla (dove mi occupo prevalentemente di mucche) e Case della Carità, che frequento in gran parte del mio tempo libero. So che non è proprio da tutte le ragazze della mia età avere queste aspirazioni, ma uno dei miei sogni più grandi è quello di gestire un’azienda agricola oltre ad avere una famiglia numerosa. Tra i grandi progetti che ho nel cuore, c’è anche quello di iscrivermi all’Università e studiare per crearmi un futuro che si basa sul sociale e sui bambini.

La possibilità di andare in missione è sempre stata nella mia testa, fin da quando ero bambina, poi è cresciuta frequentando le Case, infine si è fatta più chiara e seria parlando con una persona a me cara che mi ha incoraggiata e spronata a vedere oltre i limiti che mi creavo. In realtà, non ho deciso io di partire per il Madagascar, le mie idee erano ben altre. Inizialmente ero molto attratta dal Brasile ed era quasi diventata una fissazione; però poi la vita è imprevedibile ed il Signore ci sottopone a delle scelte e a delle occasioni che vanno prese così come sono, senza farsi domande, perché Lui le ha progettate giusto per noi. Quindi, sì, andrò in Madagascar per un anno intero svolgendo il servizio che mi è stato chiesto. Non so cosa aspettarmi da questa esperienza. Ho molte preoccupazioni, so che non mancheranno difficoltà e complicazioni da affrontare, sarò però pronta a trovare tutte le risposte di cui ho bisogno. Mi lascerò stupire da ogni minima cosa, mettendomi a disposizione di ciò che avrò davanti. In fondo, in missione si fa quello di cui c’è bisogno, ed io sono pronta a farlo.

Le motivazioni della partenza nel corso del tempo crescono e cambiano. In certi momenti la motivazione è così grande che mi fa mettere in discussione tutto ciò che mi circonda.  Dato che la partenza si avvicina, ai miei amici vorrei solo dire: grazie. Grazie per avermi capito e per non avermi giudicata, perché so che al giorno d’oggi non è proprio una scelta facile da prendere. Mi auguro di ritrovarli al mio fianco tra un anno, perché certi legami sfidano il tempo e la distanza”.

Ilaria Squicciarini

 

Un sorridente Damiano

“Mi chiamo Damiano, abito nella campagna carpigiana con la mia famiglia e mi sono diplomato presso l’ITIS di Carpi in “Elettronica ed Elettrotecnica”. Spero un giorno di trovarmi un lavoro che mi soddisfi e sogno per il futuro di crearmi una famiglia tutta mia.

L’esperienza di mio padre, che è stato in missione per diversi anni e in diversi Paesi, e quella dei miei zii che lavorano per Reggio Terzo Mondo, mi ha aiutato ad avvicinarmi al mondo missionario e a maturare la scelta di partire. Era il 1982 quando mio padre partì la prima volta per il Madagascar come obiettore di coscienza (con RTM) in alternativa al servizio militare. Io ci sono andato due volte, per periodi brevi: sia nel 2016, accompagnando mio zio per svolgere lavori di manutenzione nella capitale, Antananarive, e nel 2017 a Manakara, una cittadina a Sud-Est del Madagascar che si affaccia sull’Oceano Indiano. E, come si suol dire, non c’è due senza tre… A parte gli scherzi, penso che il fatto di tornare una terza volta e fare un periodo più lungo sia un modo per vivere a pieno la missione. Vedo questa opportunità come un modo di mettermi alla prova. E da questa esperienza mi aspetto di tornare cambiato, più responsabile, più consapevole dei miei limiti e delle mie qualità.

Penso che queste esperienze di servizio possano fare solo un gran bene, perché t’insegnano a vivere con l’essenziale. Auguro quindi a chiunque ne avesse la possibilità… di non avere paura di osare”.

Damiano Galavotti