Quale cambiamento? Quale speranza? Quale futuro?

Antananarivo, 01.09.2018

Siamo arrivati alla fine del nostro percorso; pensiamo e ci chiediamo ormai tante cose, che si sommano, si moltiplicano, si incrociano, che si confrontano, si condividono… sempre alla ricerca di qualche risposta. Ve le offriamo così come ci vengono le nostre dodici e più prospettive mischiate, composte in un dialogo senza fine. E chissà se qualche domanda se la sta ponendo qualcun altro con noi in questo momento…

Ci siamo raccontati l’esperienza nei progetti della missione che abbiamo conosciuto…

Io mi sento spesso osservata, è un po’ strano, ma chissà cosa pensano di noi!?

Sono sguardi che mi incuriosiscono, chissà cosa ci sta dietro. Un po’ di diffidenza?

Sicuramente questo riflettere su cosa pensa l’altro aiuta a decentrare il nostro punto di vista.

L’ospedale di Ampasimanjeva mi ha lasciato un magone dentro, mi ha smosso molte emozioni, è stato un piacere aiutare Chiara a risistemare il dispensario, ma c’è molto da fare, ci sono tante persone in difficoltà.

A me invece ha fatto venire tanta rabbia, basterebbe poco per risolvere problemi per noi piccoli. Mi ha colpito molto vedere che il ragazzo a cui ho donato il sangue stava meglio e… parlava ora italiano!

Pensa se ci fosse un mio caro lì nell’ospedale…

Mentre facevamo il giro, mi sono rivista io adolescente che mi lamentavo per il servizio italiano e mi sono fatta un po’ schifo. Infatti, mentre facevamo il giro, non ce la facevo più, mi sentivo troppo in colpa e sono andata un po’ in camera, poi sono tornata

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Ma quanto è difficile trovare il proprio posto in queste nuove situazioni!

Io oggi alla casa di carità di Ambositra mi sono sentita al posto giusto nel momento giusto, mentre prima, visto che non avevo mai sentito neanche parlare delle Case di Carità, mi sono sentita un po’ esterna e non avevo capito bene come funzionassero, oggi mi sono sentita come in famiglia, come se fosse normale essere e stare lì. Mi sono tanto sentita in famiglia. Però hanno forse un diverso concetto di famiglia? Ognuno fa quello che può e dà il proprio contributo come può?

Qui c’è proprio il “mora mora” (il fare le cose piano piano), bisogna accettarlo?

Mi sono sentito che qui potevo andare piano, non dovevo subito correre a fare qualcos’altro come in Italia e quindi mi sono fermato a dare da mangiare a quel ragazzo in carrozzella alla Casa di Carità ad Ambositra e sentivo che lui si fidava di me e che forse mi aveva preso in simpatia. Gli altri mi dicevano che ci stavo mettendo troppo, ma io non avevo fretta e sono stato lì con lui, cucchiaio dopo cucchiaio.

Mi sono fermata con Edmund, un ragazzo ospite della Casa di Carità di Ambositra, a scambiare una o due parole in italiano, per la mia ignoranza della lingua malgascia, e poi siamo rimasti a guardarci negli occhi e a sorridere in silenzio e… per un momento è scomparso tutto quello che c’era intorno a noi e c’eravamo solo io e lui. È la lingua l’unico mezzo per comunicare?

 

 

 

 

Stasera, dopo il pomeriggio passato giocando a basket alla casa dei fratelli di Ambositra, ho scritto troppo, davvero tanto, pensa che non scrivevo così dalla prima elementare!

Loro, a differenza nostra, stanno sempre insieme, sono molto uniti, i bambini li vedi molto coesi. Per giocare a calcio con i bambini e i malati di tubercolosi ad Ampasimanjeva, mi avevano dato una casacca diversa da vazaha e io alla fine non l’ho messa, però ho sentito la diversità. Quando gioco con loro a calcio, dopo sono piena di lividi, ma mi si apre il cuore.

Come ci comportiamo con chi chiede l’elemosina? E con quelli che vendono ai margini della strada? Dopo aver pranzato in un hotely gasy (ristorante per vazaha) ad Antsirabe, ci sono venute incontro delle persone che chiedevano l’elemosina e mi sono sentita male… io avevo mangiato e avevo la pancia piena e loro invece? È stata un’esperienza molto dura.

Mi ha colpito molto l’ospedale psichiatrico di Ambokala, la donna dietro alle sbarre, anche se ci sono delle giuste motivazioni ed è solo per un periodo, mi è sembrato per un attimo di essere in un carcere e poi le camerate come in un ospedale, i parenti che per fare assistenza devono dormire per terra…

 

Ci siamo interrogati su cosa si potrebbe fare là…

Le persone che incontriamo qui ogni giorno vivono la loro condizione come normale?

Sì, stanno bene così, per loro è bello così!

Ma forse perché non conoscono altro, non hanno altre aspettative, non hanno una percezione completa di cosa vuole dire vivere meglio?

        

Quanta sporcizia, quanto disordine, quanta povertà poco dignitosa, ma cosa vuol dire per loro e per noi dignità?

A cosa può portare la tecnologia qua? E da noi? Ho paura che distrugga anche qui le relazioni belle, vere e dirette che invece noi abbiamo potuto instaurare. È stato bello ricominciare a giocare con i bambini per davvero, direttamente e non attraverso uno schermo.

        

Mi fa rabbia pensare che ci sono tanti bambini con tante potenzialità non sfruttate e che non avranno mai la possibilità di metterle a frutto. Se chiedi ad un bambino malgascio: “Che cosa vuoi fare da grande?”, che cosa risponderà?

Si vede che hanno bisogno di figure di riferimento, diventano autonomi troppo presto.

Alla fine, mi viene voglia di abbracciarli tutti!

Sono belli i loro sorrisi, danno un senso di accoglienza, mi ha colpito il loro voler creare subito un contatto vero ed autentico. Sono sereni, nonostante tutto?

Loro stanno lungo la strada per stare insieme agli altri, per incontrare l’altro?

Quanta rabbia che mi viene a pensare che non fanno nulla per cambiare la loro condizione, che stanno lì fermi, seduti!

Mi ha colpito vedere così tanti schiavi manuali, come ad esempio l’ambiente di lavoro degli artigiani che lavorano l’alluminio in condizioni non umane… e dobbiamo riflettere insieme: quale sarà il nostro ambiente di lavoro?

Ma mi ha colpito anche la forza dell’uomo sul lavoro come ad esempio per quanto riguarda le suore.

Ma cosa si può fare? Ma cosa possiamo fare?

Abbiamo provato a darci qualche risposta?!?

Alcuni progetti di RTM non vengono più finanziati perché non danno risultati visibili subito… non si può chiedere a qualcuno, ad una popolazione, qualcosa che non può ancora dare e toglierle anche quel poco che è riuscita con fatica a dare.

Bisogna avere rispetto per chi prova a fare qualcosa anche se non va alla fine bene.

Ci vorrebbe una rivoluzione culturale partendo dalla scuola e dai bambini o da un colpo di stato.

Riesco a vedere oltre la sofferenza qui, forse per il mio lavoro, ma il livello di frustrazione inevitabilmente si alza e mi vengono in mente mille cose che si potrebbero fare nella nostra ottica, ma che magari non hanno senso qui? La via è forse quella di mettere nelle condizioni di scegliere e di fare come vogliono loro, non di dire loro come fare o fare le scelte al posto loro.

Il Madagascar ci può insegnare davvero tanto. Sarebbe bello portare il Madagascar a casa nostra e non il contrario.

La cosa più bella è stata la figura missionaria di Don Pietro Ganapini, sarei stato ad ascoltarlo per ore, se non fossimo dovuti andare vià. Siamo anche rimasti tutti tanto colpiti dai volontari, dai preti, dalle suore, dai consacrati, da chi ha fatto la scelta di stare ad operare qui. Mi sembra che abbiano una vocazione molto forte e si sente.

Ma lavorano per il progresso economico di questo paese o per altro? Dovrebbero operare per il benessere materiale, per quello spirituale o per entrambi?

Quale logica dobbiamo seguire nel vivere la nostra vita? Quella occidentale dell’accumulazione e della moltiplicazione o quella della semplicità e dell’umiltà?

Io sono venuto qui per seguire la seconda, per ritrovare le cose semplici e anche forse più antiche.

Per me sicuramente la prima logica perché porta ad un benessere materiale e quindi aiuta a vivere meglio.

Sento che devo entrare in punta di piedi per conoscere queste persone, questo popolo. Forse basta solo stare accanto e affiancarsi?

Abbiamo riflettuto insieme con l’aiuto di Don Simone Franceschini sul Vangelo del 15.08 (Lc 1, 39-56) ad Anorombato e quindi sulla vocazione di ognuno di noi…

Ma io non sono un salvadanaio! Durante la pausa dopo il mio servizio in ospedale, avevo solo bisogno di parlare con qualcuno che mi ascoltasse e che si interessasse a me, a come stavo… invece alla fine della chiacchierata mi ha chiesto dei soldi… ti chiedono sempre dei soldi… ma noi vazaha siamo per loro solo i bianchi con i soldi? Io non ho scelto di essere ricca, non vorrei essere il ricco che il Signore lascia a mani vuote.

Il Signore in questo Vangelo non ci vuole punire, ma ricompensare invitando a riconoscere e a rimettere al centro le cose essenziali, ciò che conta veramente.

Ci dice che saranno gli umili ad essere innalzati, da speranza e ci libera questo pezzo di Vangelo!

È molto bello pensare che il Signore innalzi le suore, i volontari, tutti gli umili, è consolante.

Ma perché sono dovuta venire fino a qua per trovare l’umiltà? Anche a Reggio Emilia ci sono tante persone umili, basta cercarle!

Io non sono venuta qui per capire qualcosa sulla mia vita o cercare, ma semplicemente per conoscere questa realtà e dove tutto è cominciato. È vedo che è tutto molto bello!

Ora riesco più a ringraziare, a riconoscere e ad avere la consapevolezza delle cose belle che vivo, come l’opportunità di questo viaggio. La domanda che mi pongo è: Maria ha avuto paura? E anche: come ha fatto a riconoscere che quello era il suo ruolo, la sua missione.

Ho tanta paura ad affidarmi. Cosa vuole il Signore da me? Cosa vuole che io faccia?

A volte mi chiedo cosa ci faccio qui? Oggi sento di aver fatto la cosa giusta, ieri pensavo che era meglio tornare a casa, cosa devo fare?

Ma qual è la mia casa? Cosa devo chiamare casa? Casa di qua, casa di là, non ci capisco più niente!

Quanto è difficile farsi aiutare come Elisabetta da Maria! Ho provato cosa vuol dire essere incinta e aver bisogno di aiuto anche solo per allacciarsi le scarpe. Ma quanto è difficile chiedere aiuto per me?

Ci siamo posti tante domande che forse solo all’apparenza sono alternative…

Ha senso continuare a seminare anche se con fatica oppure ha senso non aver più speranza e pensare che sia un paese solo per volontari?

Basta la vocazione o bisogna anche tener conto dei limiti che i volontari che operano in Madagascar ci hanno mostrato quando non vedono i miglioramenti? Come ad esempio operatori che rubano medicinali, popolazione che non capisce il tuo lavoro, malgasci stipendiati che non fanno il loro lavoro…

I volontari si vede che possono provare anche loro rabbia, che diventa spesso rassegnazione… ma come fanno poi a ripartire con umiltà? Hanno davvero tanta tenacia!

È un bisogno nostro quello di vedere subito i risultati oppure ha un senso?

Bisogna concentrarsi solo sulle potenzialità o anche considerare le possibilità qui per i malgasci?

Bisogna denunciare queste condizioni oppure accettare questa realtà così com’è?

Ha senso fare un confronto con la nostra realtà oppure no?

 

Ma alla fine di chi stiamo parlando? Di noi? Di loro? Di tutti?

Abbiamo visto cose che fanno ripensare alla nostra storia, che ci portano a ritoccare la nostra visione e le nostre aspettative, capire i nostri limiti, mettere in discussione la nostra visione.

Ad alcune abbiamo provato a dare una risposta, ma ve le offriamo così aperte, perché la ricerca non finisce mai…

Francesco, prima di continuare il suo percorso con sua moglie Silvia insieme a Don Olivier, ci aveva consigliato di continuare a mettere sul tavolo tutte le emozioni che avremmo provato da quel momento in avanti e allora noi… abbiamo continuato e continuiamo.

Sappiamo che il Signore è lì, sempre con noi, che conosce tutti i nostri pensieri, le nostre emozioni, le nostre domande e quindi  glieli affidiamo. Gli chiediamo anche di non smettere di farci interrogare sul senso della nostra missione qui, oggi, su questa terra e di permetterci di leggere i cartelli stradali che pone sulla strada della vita di ognuno di noi.

I campisti del Madagascar alla ricerca