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se solo sapessero di quanto bene mi hanno fatto

Come vi accennavo nella scorsa lettera, ad ottobre sono finalmente iniziate le attività dell’oratorio nella nostra parrocchia di Ambalapahasoavana, abbiamo iniziato con un piccolo Grest di una settimana per trasmettere agli animatori, ai responsabili, ai ragazzi, ai bambini e a tutta la comunità i valori che si racchiudono dentro l’oratorio e in particolare nel Grest: amicizia, complicità, fraternità, gratuità, fatica e molto altro.

Mi era mancato tantissimo!
Che sia in italiano o in malgascio organizzare un Grest non è mai facile, ma è sempre bellissimo, quando lo facevo in Parrocchia a San Giovanni non gli davo così tanto valore, invece, farlo qui, dopo più di un anno lontana da un oratorio, mi ha fatto capire quanto sia importante per me e per la mia vita.
È stato un mese impegnativo, pieno di riunioni, impegni, preparazione di discorsi, traduzioni fino a notte fonda… però ogni attimo di tempo che ho dedicato a questo progetto, che fosse correre al mercato, o fare riunioni con i ragazzi, ne è valso la pena!
È stato un successo, non tanto per il numero dei bambini, che erano poco più di 120, ma per la complicità che si è creata con i 10 responsabili e gli animatori, siamo diventati un vero gruppo e c’è affinità! Non eravamo tanti, 27 in totale, però eravamo carichi e pieni d’iniziativa! Mi sono divertita tantissimo a lavorare con loro e cosa più importante è che mi sono sentita accolta, mai una volta mi hanno fatta sentire diversa, ero parte di loro e non come capo, ma al loro pari e vi assicuro che non è una cosa scontata qui.
C’era tutta la voglia di imparare e di ascoltarsi a vicenda e la cosa bella è che, tutto questo, persiste tutt’ora, c’è ancora la voglia di mettersi in gioco da parte di tutti!!

È stato distruttivo: alle 7:00 ritrovo in parrocchia pronti ad accogliere i bambini e iniziare le attività dalle 7:30 alle 11:00, dopo un’infinita pausa per i bambini ma minuscola per gli animatori, alle 14:30 ricominciavano le attività fino alle 17:30 naturalmente sempre per i bambini, mentre, per i santissimi animatori, fra riunioni e preparazione per il giorno dopo, non si tornava mai a casa prima delle 19:00!
Una vera prova di forza e di costanza per tutti, superata decisamente a pieni voti! Sono contenta del risultato e sono ancora più contenta del fatto che gli animatori abbiamo voluto continuare fin da subito, abbiamo quindi preso la palla al balzo e dopo 3 settimane dalla fine del Grest abbiamo iniziato le attività dell’oratorio.
Ogni sabato alle 15:00 dopo il catechismo, niente di impegnativo: qualche canzone, qualche ballo e un gioco tutti insieme, i bambini partecipano volentieri e aspettano le attività, rimproverandoci per un piccolo ritardo o per un’assenza, quindi noi siamo già contentissimi di questo!!

Con l’avvicinarsi del Natale ci è stata fatta una proposta dal consiglio pastorale: organizzare una recita sulla nascita di Gesù fatta dai bambini.
Quindi in poco più di tre settimane abbiamo raccolto e cucito i vestiti, preparato il copione, fatto le prove e riprove con i bambini, preparato i balletti e le poesie per tutti i bimbi che non avrebbero recitato e il 24 dicembre prima della Messa serale siamo andati in scena!
I bambini erano felici come non mai, noi animatori ancora più di loro per essere riusciti a concludere la recita al meglio e la Parrocchia, il Consiglio Pastorale e il presidente continuano ancora oggi a farci i complimenti e ringraziarci per quello che abbiamo fatto e continuiamo a fare con i bambini.
Penso che la riconoscenza e la fiducia che i parrocchiani ci stanno dando e che soprattutto stanno dando agli animatori giovanissimi, sia incredibile, da noi è diventato un po’ scontato, ma qui vedere tutto nascere da zero è stato meraviglioso, i visi dei ragazzi quando i genitori li ringraziano sono impagabili, si sentono parte di qualcosa e soprattutto si sentono tutti responsabili del futuro dell’oratorio. Finita la recita e passato il giorno di Natale, ci siamo rimessi al lavoro e abbiamo fatto un piccolo Grest di 3 giorni, 26/27/28 dicembre.
I bimbi erano più di 140 e gli animatori con qualche perdita ma qualche nuovo ingresso, se la sono di nuovo cavata egregiamente e ognuno di noi è stato necessario nel suo piccolo. 

E ultima cosa: questi mesi sono stati anche mesi di grandi decisioni.
Ci ho pensato e ripensato, ci ho pianto e riso sopra e come ho sempre fatto, voglio condividere con voi la decisione presa: è ora di tornare a casa. Mi fa paura dirlo e tutto le volte che ci penso mi ritrovo in un vortice di pensieri e di ricordi, volti e momenti e inevitabilmente mi rattristo.
Devo tanto a tutte le persone che ho incontrato qui in missione, soprattutto ai malgasci. Mi hanno insegnato a sorridere di nuovo, a divertirmi di vero cuore e ad amare come mai avevo fatto prima. Quando parlo con loro e gli ricordo che il mio ritorno è vicino mi ripetono sempre una frase: “Sappiamo benissimo che ti dimenticherai presto di noi!” se solo sapessero o si rendessero minimamente conto di quanto bene mi hanno fatto, forse non direbbero quella frase, la mia sfida ora è fargli capire che mai e poi mai mi dimenticherò di loro, certo saremo lontani e le comunicazioni saranno molto difficili ma una parte del mio cuore rimarrà sempre qui e loro saranno sempre con me nel cuore e nelle preghiere.
Penso che anche la mia famiglia nella breve visita che ci hanno fatto a novembre si sia resa conto, ancora più dell’anno scorso, di quanto ci vogliamo bene qui. 

Per questo nuovo anno voglio augurarvi di trovare delle persone che vi amino davvero e vi auguro di riuscire a trovare delle persone da amare con tutto il vostro cuore, senza riserve e senza limiti
di tempo e di spazio! 

Buon 2020 a tutti!

Un abbraccio,
Giulia

Lettera Giulia maggio 2019

E’ tutta una questione di fiducia

18/05/19

E’ tutta una questione di fiducia.
Penso sia questa la ragione per cui sono ancora qui.
Credo di essere una persona dalla fiducia facile, se si può dire, mi fido da subito delle persone e la probabilità di prendere delle incantonate è alta.
Sentivo il senso di colpa per non avere ancora scritto, ma avevo un po’ di confusione in testa e non sapevo come mettere in fila i pensieri.

Sono tornata in Italia e ho visto con i miei occhi quanto teniate anche voi a questa missione, inizio un po’ di più a capire cosa voglia dire partire a nome di una comunità. Dopo un mese lì so di avere le spalle coperte, ne ho avuto la dimostrazione, ognuno c’è stato, c’è e ci sarà a modo suo e questo mi rassicura molto, soprattutto nei momenti un po’ più bui. Voi avete dato fiducia a me, io ho dato fiducia a voi e non posso fare altro che dare fiducia agli altri, anche un po’ ingenuamente, ma voglio comunque farlo.

Mi sono detta tante volte e l’ho detto anche agli altri che non sarebbe stata la stessa cosa tornare qui, ma in fondo non ci avevo mai creduto veramente, mi chiedevo effettivamente cosa sarebbe
potuto cambiare: le persone sarebbero state più o meno le stesse, i luoghi anche e io, sono sempre io, non so spiegarvi che cosa ma, in realtà, qualcosa è cambiato veramente, non riesco a capirlo,
forse più avanti mi sarà più chiaro.

Sabato 11 abbiamo fatto un piccolo ritiro e rispondendo a qualche domanda sono riuscita a mettere un po’ in fila alcuni pensieri.

<< In qualunque casa entriate prima dite: “Pace a voi!” >> Lc 10,5

Da qui le domande:
– Quali sono i luoghi dell’annuncio?
– Cosa vuol dire andare nelle case?
– Qual è la mia ricompensa?
– Come faccio a capire che è ora di passare in un altro luogo?
– Come e dove riconosco che il regno di Dio è vicino? 

Penso che qualunque luogo sia luogo di annuncio a patto che si porti bene e gioia. Annunciare per me vuol dire portare del bene e con bene intendo vestiti, cibo, medicine, un sorriso, l’ascolto o la
semplice presenza, insomma tutto ciò che si ha da donare in quel momento. Non so bene come spiegarlo ma io lo sento se sto portando del bene o no, credo di riuscire a capire se la mia presenza
in un luogo o in una situazione è positiva o negativa e anche con il riscontro degli altri capisco se sto portando del bene.
lettera Giulia maggio 2019 (2)


Nel mio caso penso che andare nelle case significhi confrontarmi con le persone, parlare con loro, scoprire come vivono, lasciandomi consigliare, fidandomi di loro con il rischio di essere presa in giro.
È per questo che dico che è tutta una questione di fiducia, perché qui sono tante le situazioni in cui le cose non vanno proprio come avevo pensato, soprattutto con le persone di cui mi fido, ma quando le cose funzionano e quando capisco che la fiducia che ho nell’ altro e il bene che provo a trasmettergli è reciproco, è proprio lì, in quel momento che io mi sento ricompensata, quando le persone sono felici e io sono felice con loro allora mi sento appagata e tutte le incantonate prese fino a quel momento spariscono.
Quando è ora di cambiare luogo? Penso di sentirlo, come dicevo all’ inizio, quando il mio apporto è negativo o non necessario e di conseguenza anche i momenti in cui mi sento ricompensata sono
pochi o nulli è ora di andare. Quando non sarò più disposta a mettermi in gioco o a dare fiducia alle persone, allora saprò di non poter dare più un apporto positivo. Anche qui penso che la fiducia giochi un ruolo chiave, finché avrò voglia di provarci nonostante le cadute e i pali in faccia allora non sarà ora di andare. Come fanno alcune persone ad annunciare e avere fiducia nelle persone nello stesso luogo per tanto tempo? Forse la loro chiamata è molto chiara e forte oppure hanno la forza e la capacità di amare e di perdonare le persone che io ancora non ho e che invidio molto. È proprio in queste persone che vedo il regno di Dio, in tutte quelle persone che ci riprovano, non mollano, perdonano e tornano ad avere fiducia nelle stesse persone.

Mi piacerebbe essere in grado di farlo un giorno, la strada è ancora lunga ma per il momento posso lavorarci!

Ciao ciao,
Giulia

lettera Giulia maggio 2019 (3)

a cena dei genitori di Simone Bradiani

Una serata speciale

Quando un figlio parte per svolgere servizio in missione in un luogo lontanissimo da casa, noi genitori ci poniamo mille interrogativi sul perché di tale scelta, ma non valutiamo il positivo stravolgimento che avviene nelle nostre vite.
Vi posso garantire che la scelta di Giulia (Giulia Farri – in servizio ndr) che attualmente presta servizio al Villaggio Terapeutico per malati psichiatrici di Ambokala a Manakara in Madagascar ci ha cambiati, uniti ancor più di prima ma soprattutto ci ha arricchiti.

E’ grazie alla sua scelta che abbiamo avuto l’opportunità di visitare un paese meraviglioso pieno di colori, profumi, sguardi, sorrisi, ed è proprio nel corso di quella visita che prima di Natale ad Ambokala abbiamo avuto l’onore di conoscere Mons. Gaetano Di Pierro Vescovo di Farafangana in visita ai malati ospitati nel villaggio.
Eh si perché in ospedale ci si va accompagnati dalla famiglia, per chi ce l’ha, perché c’è bisogno di tutto e la famiglia può assisterti. Capita anche che il ricoverato sia assistito dall’altro coniuge che si porta con se i bimbi anche i più piccoli. Quindi l’ospedale si trasforma in un vero e proprio villaggio.

a casa di Simone Bradiani

La cena inieme a casa di don Simone Bradiani … in Italia, anche con i parenti degli altri volontari in servizio in diocesi di Farafangana

Mons. Gaetano di origine italiana vive ormai da molti anni in Madagascar è Vescovo da 19 anni ma solo da 9 mesi è stato nominato Vescovo di Farafangana e quindi anche di Manakara. Un incontro veramente inaspettato ma graditissimo, ci ha accolto con tanto calore facendoci sentire a casa, ha elogiato i nostri ragazzi per il lavoro che svolgono e ci siamo lasciati con l’augurio di rivederci in Italia.

I genitori di Giulia Farri

Giulia a Manakara: storia, auguri, sorprese

Ciao!
È quasi finito il mio anno e vorrei “tirare un po’ le somme” di quello che è stato.
Pochi giorni fa ho riaperto e riletto le prime lettere che ho mandato: traboccavano di entusiasmo ed euforia, tutto bello, tutto meraviglioso.
Nella prima lettera del 20 Marzo ricordo di aver nominato dei profumi. In quel momento ero ad Ambostra a studiare malgascio…posso dirvi con sincerità e con meno euforia che le parole profumo e Ambostra non possono stare insieme: il pesce secco, la carne del mercato, lo smog e la sporcizia lungo le strade emanano ogni tipo d’odore ma non di certo profumo! Nonostante questo ho dei bellissimi ricordi di quel posto, fondamentalmente è stato il primo assaggio della mia vita malgascia: vivere con i don e la Giorgia, “studiare” malgascio, andare al mercato, giocare a tombola in casa di  carità, ritrovarsi alla sera tutti e 4 a guardare un film, è stato un bel mese. 

Il 23 Marzo sono arrivata a Manakara (finalmente) e la lettera successiva parlava un po’ delle case dei malgasci e di quanto noi fossimo fortunati ad avere cose che per loro erano inimmaginabili, sono convinta di aver avuto la fortuna di nascere con queste possibilità ma sono ancora più convinta di essere al 100% più fortunata per aver avuto la possibilità di conoscere questo lato del mondo e aver imparato a sorridere per ogni piccola cosa grazie a queste persone. 

La terza lettera, se non sbaglio, parlava di Ricot e di quanto fosse pigro; posso aggiornarvi su di lui e dirvi, con orgoglio, che adesso lavora alla Ferme di Analabe e dopo tanta fatica iniziale, adesso sta benissimo, si impegna! È stata una vera evoluzione la sua e io sono sempre felice di andare ad Analabe e vederlo stanco ma felice! 

La lettera dopo era su Cela, il ragazzino del mercato, anche per lui le cose sono cambiate, è tornato a casa e ha iniziato ad andare a scuola, con alti e bassi ovviamente. In questi mesi abbiamo imparato a conoscerlo ed è davvero un ragazzino fragile che ha bisogno di sostegno ma, sono sincera, per la maggior parte del tempo resta il ragazzino ribelle del mercato.

Le ultime lettere invece parlavano di Michel, chi se lo dimentica, nonostante le cose non siano andate proprio come avrei voluto, un po’ del mio cuore è andato via con lui! Una parte di me, ogni giorno, spera di incontrarlo per strada con quel cappellino rosso che aveva sempre, lo cerco con lo sguardo, ogni mattina controllo la macelleria dove lavorava sperando di rivederlo sorridente e felice, ma da quando è partito nessuno ha più avuto sue notizie, io voglio credere che stia bene chissà dove qui in Madagascar! Ma quel sorriso e quella risata contagiosa non me le scorderò mai e poi mai. 

giovani che lavorano in sartoria per terra a Manakara

Ci sono molte altre persone che ho conosciuto qui: Iabelen, bimbo del mercato, che hanno conosciuto anche i miei genitori, casinista e coccolone, anche nelle giornate più tristi un sorriso lui riesce a strappartelo.
François: prima il corso d’italiano, poi un monopoli, poi un mofo, poi una torta cucinata insieme fino ad arrivare ad un’amicizia, parliamo tanto, ci confrontiamo e confidiamo mescolando le nostre “capacità linguistica”: il mio scarso malgascio, il suo scarso italiano con in mezzo un po’ di francese, fra una risata e l’altra riusciamo anche a fare discorsi intelligenti!
E poi ancora Santatra: braccio destro di François, Lalatiana che a 20 anni dedica anima e corpo alla parrocchia, a partire dalla corale fino ad arrivare ai chierici e poi gli indimenticabili pazienti di Ambokala: Cela che parlava con le formiche nella sabbia, Hery gigante buono, insieme ad Ardilece, Justin e la sua fobia per i serpenti, Jibre che potrei definirlo “Michel II” , Jean Paul e i suoi cento figli immaginari e tantissimi altri, insieme hanno contribuito a rendere unico questo “quasi” anno. 

festa

Tutto questo per dirvi che dopo 10 mesi di cose viste con entusiasmo e curiosità sono pronta a guardare e vedere questo posto con occhi nuovi, non più offuscati dall’euforia dell’inizio. La curiosità farà sempre parte di me, ma voglio legarla alla criticità e alla semplicità che in questo poco tempo tutte le persone che ho incontrato mi hanno insegnato.
Insomma, inutile tirarla per le lunghe, non sono pronta a lasciare tutto questo, ho ancora voglia di scoprire e di lasciarmi scoprire.

 

Qualcuno di voi lo sa, qualcuno se lo immagina, per altri sarà una sorpresa però ho deciso di rinnovare e restare almeno un altro anno, lo dico solo ora perché il visto ormai è arrivato quindi non c’è modo di farmi cambiare idea.
Prometto però di scrivervi, più spesso degli ultimi mesi, per raccontarvi e condividere con voi gioie e dolori di questa vita.
Buon 2019 a tutti!
A prestissimo, Giulia

Il panorama dell'oceano e delle sue spiagge disabitate

Quel benedetto sorriso

“Tutto iniziò così. Quel sorriso, quel maledetto sorriso”. È l’incipit di una celebre serie tv americana,
“13 reasons why”.
Ma non è questo ciò di cui parlerò.
Ho scelto questa frase perché è perfetta per Giulia. Così è nata la sua amicizia con Michel, con un semplice
sorriso, innocente e irrazionale, fatto da dietro le quattro sbarre metalliche della cella di isolamento in cui
era stato rinchiuso al suo arrivo qui ad Ambokala. Come con molti altri pazienti, la diffidenza iniziale nei suoi
confronti è svanita rapidamente, spazzata via da quel candido sorriso che ha aperto in lei le porte del cuore,
ora pronto ad ascoltare, capire e avvicinarsi.
Per più di una settimana Michel ha vissuto in cella, dispensando allegria durante i pasti grazie ai suoi canti, ai
balli improvvisati e a infantili giochi che ci divertivamo a fare assieme (il famoso cucù di cui parla Giulia).
E basta poco, un piccolo assaggio della sua genuinità, per rendere contagioso quel sorriso, forse solo frutto
della sua malattia o dei farmaci somministratigli, o causato dalla droga e dall’alcool di cui spesso ha abusato,
o forse, ancora, frutto di uno spiraglio di lucidità.
Ma poco importa l’origine di tale gioia, specialmente a Giulia, la quale, superate le paure di rimanere sola a
gestire un ospedale psichiatrico e i suoi pazienti, è riuscita nell’impresa più difficile di tutte: sentirsi a casa e
accolta. E non perché è “matta” come molte delle persone che la circondano ogni giorno, ma perché invece
di compatirle pietosamente, le considera uguali a sé, trattandole di conseguenza, scherzandoci liberamente,
eliminando i pregiudizi, senza però cadere nel buonismo o nel bigottismo che troppo spesso annebbiano
l’opinione delle persone, chiudendo le loro menti e i loro cuori e rendendole stagne alla scoperta e alla
crescita.

Lei è rimasta critica, in grado di divertirsi con i pazienti, ma anche di rimproverarli quando necessario.
Qualche giorno fa hanno scoperto Michel mentre beveva alcolici e fumava erba, il tutto trascurando la
propria terapia farmacologica. Giulia non ci ha pensato due volte a sgridarlo, ad arrabbiarsi e a mostrargli la
propria delusione, palesemente visibile sul suo volto per alcuni giorni. E proprio questo comportamento, il
porsi al pari degli altri, ha fatto sì che Michel capisse i propri errori e riprendesse a seguire diligentemente la
terapia, mostrando segni di miglioramento, almeno per ora.
E chissà, che magari, alla fine, la miglior cura per certi casi di malattia mentale non sia altro che la presenza
di un amico, con cui condividere la quotidianità e la follia e che ti faccia dire “Ciao amica mia, […] sono felice
che tu sia qui”.
Enrico Cerio, RTM
Mankara, il 04/09/2018.

Da Giulia: i mesi sono volati via…

Sono “già” a metà (visto il ritardo, un po’ più di metà).
Perché “già” e non “ancora”?!
Perché questi mesi sono volati via. Sono stati mesi pienissimi, tante esperienze e tante sensazioni.
Sono stati mesi di felicità assoluta, ma anche di tristezza, perché in fondo un pezzo di cuore è lì da voi e con voi!

Sono stati mesi pieni di volti nuovi, diversi, che all’inizio pensi di non riuscire mai a distinguere, ma che piano piano diventano la tua nuova famiglia.
Ambokala ne è un esempio lampante. L’impatto è stato forte all’inizio, ma adesso vorrei essere là, in ogni momento, anche adesso che sono sul letto in casa a scrivere, io vorrei essere là.
A fine luglio Enrica è tornata in Italia e ad inizio agosto se ne sono andate anche la Suora, Diana e Berthine. PANICO!
Ad Ambokala siamo rimaste l’assistente sociale ed io. Tantissime le paure: temere di non riuscire a far nulla, affrontare una nuova sfida, combinare guai, ma prima fra tutte la paura di non riuscire a dire una parola!
In realtà, agosto è volato via e i timori con esso! Ho iniziato a parlare e sto trovando il mio modo di stare con i pazienti, spesso non capendo nulla di quello che tentiamo di dirci, il momento migliore per ridere tutti insieme!

Tutti insieme ad Ambokala

TUTTI INSIEME: pazienti, cuoche, bambini, noi volontari, nessuno escluso!
Una cosa che credo di aver imparato in questi mesi è che spesso siamo portati a guardare queste persone con pietà, quasi come se provassimo compassione per loro. Non credo sia giusto. Loro hanno bisogno di essere trattati come tutte le altre persone, che siano poveri o ricchi, puliti o sporchi, bambini o adulti, sani o pazienti dentro alle celle d’isolamento!
Si, ad Ambokala ci sono le celle di isolamento!!!
TUTTI hanno bisogno di essere trattati allo stesso modo!
Un esempio? Michel!
Appena arrivato è stato messo nella cella di isolamento. Parlava di continuo, sembrava una radio. Alternava momenti in cui era arrabbiatissimo con il mondo e momenti in cui bastava guardarlo e diventava un bambino indifeso.
Avete presente quei bambini con quel visino che guardi e non puoi far a meno di sorridere?!
Così è stato con Michel!
Michel è quello che da dietro le sbarre della cella di isolamento fa “cucù” per farti ridere; è quello che ti sorride ogni giorno appena ti vede, dicendoti: “Ciao amica mia, è da tanto che non ci vediamo, sono felice che tu sia qui!” e magari ci siamo visti il giorno prima; Michel è quello che canta per tutti, se solo glielo chiedi; è quello che va al mercato con la mamma e riesce a farsi voler bene anche da un cane randagio; Michel è questo e tantissimo altro e mai mi permetterei di prenderlo in giro o di guardarlo con compassione, anche perché non ne avrei motivo!
Michel è unico e forse ce ne vorrebbero un po’ di più di Michel al mondo!!
Un abbraccio,
Giuli
P.S.
Quasi dimenticavo la cosa più importante! Il giorno dopo che ho inviato la lettera il mese scorso, Celà, il ragazzino di cui vi ho scritto, si è presentato a casa nostra con la sua mamma ed i suoi fratellini minori. Insomma, è tornato a casa!!!
Vive con la mamma e il suo nuovo marito, che per il momento sembra volerlo in casa e lo porta anche a lavorare con sé!
Prossimo obiettivo?! Ad Ottobre inizia la scuola, chissà, magari ha voglia di cambiare ancora di più il suo futuro!

Manakara, una missione comune

Qui a Manakara abbiamo frequentato la lezione di sport del lunedì con gli ospiti dell’ospedale psichiatrico di Ambokala.

Ginnastica con gli ospiti dell’ospedale di Ambokala

Lorenzo ci ha saputo accompagnare con leggerezza di cuore e ironia facendoci muovere i muscoli, non solo fisici, in sintonia.

 

 

 

 

 

Insieme a Giulia e Chiara abbiamo costruito ponti e strade di speranza, abbiamo respirato il profumo dell’Oceano Indiano, ricevendo così il grande regalo di poter fermarci a contemplare la bellezza dell’infinito e della creazione.

 

Panorama dell'Oceano Indiano a Manakara

 

La Confiserie di Manakara

Abbiamo assaggiato le marmellate vendute nel negozietto della diocesi di Reggio a Manakara, dove si commerciano caffè, saponi, olii essenziali, miele e tanti altri prodotti, frutto del lavoro di donne, altrimenti disoccupate.

 

 

 

 

 

 

 

Abbiamo visitato l’ufficio e il centro culturale di RTM. Ora ci lavorano Enrico e Tania che ci hanno parlato delle difficoltà che incontrano nel provare a cambiare le cose in profondità e nel ricevere finanziamenti per continuare a lavorare con le autorità malgasce su temi di grande importanza.

Abbiamo avuto la possibilità di accompagnare i volontari di RTM a fare una sensibilizzazione sulla cura della malattia della lebbra in un villaggio qualche chilometro più in là, dove ci siamo fatti prendere dai sorrisi e dalla gioia contagiosa dei bambini incontrati.

Giochi con i bambini nel villaggio

Abbiamo conosciuto Luciano che ci ha parlato dei suoi progetti e della sua vocazione, che ci ha trasmesso il senso dell’esserci sempre per gli altri, con umiltà, in silenzio e nell’ombra.

Abbiamo visitato quell’oasi di pace della Ferme di Analabe‚ un posto dove ognuno può dare il proprio contributo, dove può ritrovare il contatto con la bellezza della natura e dove c’è spazio di recupero, di progettazione e di incontro.
Proprio qui, una volta all’anno viene organizzato un campeggio di tre giorni con i ragazzi dei vari distretti della parrocchia di Manakara che‚ finalmente‚ possono stare insieme ed essere bambini, imparando attraverso il gioco. E’ stato un privilegio aver condiviso, anche solo per un giorno, questo momento.

La chiesa costruita da don Giovanni Ruozi con l’aiuto della diocesi di Reggio

Abbiamo visto la luce del Signore nella chiesa nuova di Gesù Misericordioso costruita con tanto amore per volere di Don Giovanni. Nonostante la grandezza della chiesa, ci racconta che alla domenica si può far fatica a trovare un posticino per stare insieme alla comunità e al Signore.
Mentre ci parlava, potevamo sentire la sua gioia, il suo averci messo anima e corpo, la sua umiltà e obbedienza per la preparazione del suo ritorno in Italia.

Presto, anche Damiano avrà la possibilità di iniziare il suo percorso lì. Gli mandiamo un forte e caloroso abbraccio, ringraziandolo per il suo essere sempre pronto a fare e per aver condiviso con noi momenti del campo molto forti che ricorderemo con il sorriso sulle labbra.

Infine, pensavamo che…
forse le persone che abbiamo incontrato qui hanno un filo rosso che le collega, una missione comune: camminare mano nella mano con il Signore, facendo rifiorire persone, piante, animali, ridando la vita, essendo sempre alla ricerca, provando a crescere e maturare, tentando poi di accompagnare anche gli altri in questo cammino.
Ringraziamo il Signore per averci dato la possibilità di fare questi incontri che ci interrogano, ci smuovono e ci lasciano tanta speranza.

Il panorama di Ampasimanjeva

Ampasimanjeva: essere ospiti…con una parte del cuore rimasta là

Si è chiuso un piccolo ed importante capitolo di questo lungo percorso che a noi sembra‚ però, troppo corto.
Il 18 agosto abbiamo dovuto salutare Ampasimanjeva. Inutile dire che una parte del nostro cuore è rimasta là.
Nel viaggio per raggiungerla, percorrendo al buio quell’ora di strada sterrata con buche che sembravano voragini, pensavamo di essere arrivati alla fine del mondo.
Appena arrivati a destinazione, ci siamo seduti a tavola in fretta e furia “perché poi bisogna spegnere il generatore!”. Infatti, la corrente elettrica ad Ampasimanjeva non c’è. Per l’ospedale e le altre stanze antistanti dei dipendenti viene tenuta accesa attraverso un gruppo elettrogeno solo un’oretta o due al giorno dopo il tramonto per permettere alle persone di lavarsi e cucinare, poi viene spenta e risparmiata per eventuali urgenze in ospedale.
Ci siamo accorti che le cose al buio acquisivano un’altra fisionomia, gli altri sensi si espandevano e si sviluppavano maggiormente. Ci siamo ritrovati ad apprezzare quel fascio di luce della torcia prima di addormentarci, che offriva un po’ di senso di calore. A Manakara è stato strano riabituarsi alla luce elettrica, è come se la vista regnasse di nuovo sovrana in ogni situazione. Ci siamo chiesti: sarà forse per questo che noi diamo così importanza all’apparenza?

I bambini giocano a calcio nel campetto fangoso di Ampasimanjeva

I bambini giocano a calcio nel campetto fangoso di Ampasimanjeva

È stato emozionante sentire il profumo dell’aria pura, non inquinata, di aperta campagna, assaggiare i sapori dei cibi che le suore ci cucinavano con tanto amore, udire i rumori della natura mentre ci ritrovavamo alla sera in cerchio sotto alla veranda dei volontari per giocare a lupus, stringere le manine calde e un po’ fangose dei bambini che tutti contenti ci hanno accompagnato a fare il giro del villaggio, ascoltare le parole di preghiera, di confronto e di condivisione delle volontarie che hanno deciso di dedicare un anno della loro vita lì, soltanto per esserci.

Quello che si può notare ad Ampasimanjeva è il collegamento fondamentale che esiste fra tutti i progetti della missione presenti: le persone malate di tubercolosi non sono persone escluse, ma sono parte di una comunità. Giocano a calcio con i bambini della scuola e i loro figli frequentano insieme ad altri proprio quella scuola. Ci chiedevamo: tutto non parte forse dall’educazione scolastica?

La Ludoteca “Papillon“ è una scuola libera e gratuita non riconosciuta ufficialmente. Inizialmente, era nata per permettere ai figli dei malati di tubercolosi, che devono sottoporsi ad un trattamento di due mesi in ospedale, di avere continuità nella formazione. Successivamente, si è poi deciso di aprirla a tutti i bambini del villaggio che hanno più di tre anni e che non possono permettersi di andare a scuola.
Ci è sembrata un’apertura che significa vera accoglienza e giocando con tutti quei bambini si può percepire la loro gratitudine nel sentirsi accolti e nell’avere qui un punto di riferimento.

Le scuole statali e private sono tutte a pagamento e pochi genitori possono permettersi di mandarci i loro figli.
Il tasso di analfabetismo, ci riferiscono i volontari, è del 78%. Qui, oltre a Madame Beatrice che la gestisce, c’è Giulia, che con il suo sorriso accoglie con gioia ogni bambino.

Un bimbo con un cellulare ad AmpasimanjevaGiulia ci ha raccontato due episodi: una volta si era un po’ arrabbiata con un bambino che sembrava molto motivato, ma veniva poco a scuola. Allora, glielo aveva fatto presente e lui aveva risposto che non poteva esserci sempre non perché non volesse, ma perché doveva andare a far pascolare gli zebù.
L’altro episodio che ha condiviso riguarda il venerdì alla Ludoteca. Durante quella mattinata si guarda sempre insieme un film e molti bambini, che vengono a scuola proprio per imparare e sono molto motivati oppure che vengono da molto lontano a piedi o in lakana (canoa), non si presentano perché “mi sembra solo di perdere tempo”.

Ilaria con i bimbiPresto sarà il turno di Ilaria, con la quale abbiamo condiviso parte del nostro viaggio e che affidiamo con gioia al Signore.

 

 

 

 

L’altro progetto del CMD ad Ampasimanjeva che abbiamo avuto l’occasione di conoscere è l’ospedale.

L’esterno dell’ospedale di Ampasimanjeva con malati e parenti in attesa

È uno degli ospedali di riferimento del sud del Madagascar, in cui i pazienti hanno la possibilità di pagare le cure in base alla loro disponibilità economica e in ogni caso sono sempre garantite.
Chiara ci ha fatto fare un giro lungo ed approfondito di tutti gli spazi fisici ed emotivi presenti. Ci ha raccontato con passione alcune storie di malati che l’hanno colpita: storie di donne che muoiono ancora e spesso di parto, storie di presunte vittime di violenza, storie di persone con infezioni così grandi che ormai invadono tutto il corpo, storie di donne che tengono i loro figli appena nati con loro già sotto le coperte, storie di padri che muoiono e che lasciano una figlioletta che ha come unico punto di riferimento la scuola, storie di bambini che si presentano senza un arto, e tante tante altre. Sentiamo il peso di queste storie, la fatica di raccontarle e anche di accettarle.
Chiara ci ha spiegato anche che la gente ha paura di venire in ospedale perché gira voce che “in ospedale si muore“. Ci ha detto anche che questo pregiudizio è comprensibile perché spesso le persone arrivano in ospedale all’ultimo momento, all’ultimo stadio della malattia, quindi come ultima spiaggia prima di morire e quando ormai è troppo tardi.
Sarà forse che il centro della loro vita è la sopravvivenza quotidiana, quindi il lavoro e i bisogni primari? Sarà per questo che non c’è tempo e spazio per la riflessione, per pensare a cosa fare e per prendersi cura di sé e degli altri?
A questo proposito ci è stato riportato un detto malgascio: “fai tanti figli, perché si sa già che alcuni moriranno.”
Mentre eravamo tutti seduti di fronte all’ospedale abbiamo visto passare una persona deceduta in una barella fatta di legno e ci è subito apparso chiaro che la morte fa parte davvero della vita, ma è così tanto difficile da accettare e affidare la nostra vita e quella degli altri al Signore. Capiamo anche che le emozioni di fronte ad un evento così traumatico come la morte vengono espresse in modo differente in base ai modelli culturali di riferimento: qui, ad esempio, non va bene piangere e i bambini vengono sgridati se piangono.

Abbiamo dato un’occhiata veloce alle ‘cucine’, spazi predisposti per i familiari dei malati: nella stessa stanza questi preparano da mangiare e dormono su stuoie per terra. Ogni malato, infatti, si porta dietro tutta la famiglia e a turno ogni componente si prende cura della sua assistenza di base. Entrando in una stanza dell’area adulti, ci è stato fatto notare che qui le persone sono fortunate perché a tutti è garantito il materasso sul letto, cosa che negli altri ospedali non avviene e solo chi riesce a permetterselo lo noleggia, altrimenti utilizzano una stuoia sopra alla rete. Poi, siamo stati nell’area materno-infantile e nella sala parto, dove un gran numero di donne incinte e malate formavano una lunga fila tranquilla e paziente.

La sala operatoria dell’ospedale di Ampasimanjeva

Infine, dopo il dispensario dei medicinali e il laboratorio per le analisi del sangue, finalmente la sala operatoria, che è l’unico ambiente più o meno a norma secondo la nostra logica occidentale per quanto riguarda la sterilità.

È davvero difficile descrivere a parole le grandi differenze rispetto agli ospedali italiani e provare a trovare un senso a tutta questa sofferenza e al modo di gestirla qui, in Italia e ovunque.

Gran parte dei mezzi che sostengono tutto l’ospedale sono i fondi inviati dalla Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla, che derivano da donazioni, e l’amore e la cura dei volontari, delle suore malgasce, del signor Giorgio Predieri e dei pochi dipendenti, rigorosamente tutti malgasci, che ci lavorano quotidianamente. Fra questi, il Dottor Martin è davvero uno dei punti di riferimento principali, medico chirurgo ginecologo, formatosi prima ad Antananarivo e poi in Italia e dalla capitale trasferitosi qui con tutta la famiglia, anche lui in missione in questa piccola realtà. Chiara ci ha raccontato che lui gioca e allena nella squadra locale di basket.

Il dottor Martin, direttore dell’ospedale di Ampasimanjeva

Ci hanno colpito immensamente le sue parole: “giocare a basket è come lavorare in ospedale, se fai canestro, se riesci a guarire un malato o fare un’operazione che va poi a buon fine, fai centro e sei contento!”. Ci ha fatto un po’ commuovere tutti la sua pace interiore, il suo impegno, la sua sensibilità, il suo prendersi a cuore, il suo caricarsi delle responsabilità, la sua decisione di non andare in pensione per continuare ad operare: è davvero un esempio di grande umiltà.

Un’ altra attività di cui si occupano i volontari è quella con le persone malate di tubercolosi, che vivono insieme ai loro familiari in strutture separate ma vicine all’ospedale, anche se non sono più contagiosi una volta iniziata la terapia.

Giulia e Giorgia ora si alternano tutte le mattine per fare un piccolo momento con loro, dando loro le medicine e provando loro la febbre per avere un monitoraggio costante dell’andamento della loro guarigione. Osservando le loro cartelle ci hanno colpito i dati riguardo al loro peso e l’età: 25-35 chili e alcuni anche molti giovani. Sono una piccola e accogliente comunità, ridono e scherzano fra loro e ci hanno fatto sentire tanto accolti. C’è un ‘capo’ che coordina un po’ il tutto ed è un punto di riferimento per tutti i questi malati. Quello attuale è un ragazzo giovane con un sorriso smagliante e con la battuta sempre pronta.

La sala di attesa dell'opsedale

Ci viene quindi ancora da chiederci quanto e quale posto occupa la malattia nella mente e nel cuore delle persone che abbiamo incontrato.

Lasciamo per ultima una frase che un anziano signore in un banchetto ad Ampasimanjeva ha detto a Giulia, mentre ci vedeva passare nel villaggio, e che lei, commossa, ci ha tradotto ringraziando il Signore: “sono arrivati degli ospiti, che bello!”. Ed è stato proprio un grande insegnamento di ospitalità e di accoglienza: per una volta al posto della parola ‘vazaha’ (stranieri), c’è stata donata la parola ‘ospiti’.

I campisti ampasimanjevi 2018

Bambini, bambini e ancora bambini

Bambini, bambini e ancora bambini, bambini ovunque andiamo.
Qui la vita inizia in ogni angolo.

 

 

 

 

 

 

Bambini che ci sciolgono con i loro sorrisi, un po’ sdentati, ma tanto lucenti.
Bambini che, come ci racconta Giulia, fin da piccoli ad Ampasimanjeva sono spesso chiamati a tener dietro agli zebù, ad avere il ruolo di piccoli pastori perdendo così la possibilità di frequentare la scuola, di viversi l’infanzia.

 

 

 

Bambini curiosi che, appena ci vedono, con un po’ di vergogna tentennano fra lo stare e lo scappare, ma quando decidono di rimanere, sentiamo la loro accoglienza vera e sincera, come un immenso abbraccio anche senza sfiorarci.

Una bimba con il fratellino sulla schienaBambini che portano sacchi pesanti sulla loro testolina, che tengono sulla schiena il fratellino o la sorellina, due cuori vicini, che si toccano, uno che impara presto cosa significhi essere responsabile e l’altro che si deve affidare.
Bambini che ci seguono ovunque andiamo, che corrono come forsennati dietro al nostro pulmino, pur di non perdersi il saluto di un “vazaha” (straniero).

 

 

 

 

 

Bambini colorati nel loro vestito migliore per l’occasione della messa, che sanno a memoria le canzoni di chiesa perché sono le uniche che possono ascoltare.
Bambini silenziosi nel nostro momento di condivisione con Don Simone ad Anorombato, il giorno prima di ferragosto, che ci osservano prima con occhi stupiti poi ci scrutano uno ad uno per comprendere cosa stia succedendo, condividendo con noi semplicemente standoci accanto.

Bambini che non si sa neanche se nasceranno, che potrebbero morire dopo i primi battiti, che hanno un pancione gonfio come un palloncino, pieni zuppi di fango, con una sola ciabatta, quasi tutti con i piedi scalzi, con le treccine o con i codini, che si lavano nel fiume.

Bambini che si divertono come pazzi a fare i bans con Chiara, che adorano le foto, che non vedono l’ora di vedere finalmente la loro espressione riflessa come su uno specchio, che ridono come matti appena mostriamo loro la foto appena scattata, che vorrebbero essere riconosciuti, sognati e ricordati.
Bambini che, ai vari mercatini che incontriamo, rimangono lì tutto il giorno con i genitori, ad aspettare, a sgranocchiare, a osservare, a succhiare da un seno offerto gentilmente da mamme stanche e segnate.

 

Bambini che calciano un pallone composto da stracci, che rincorrono Roberta e Martina, che assaltano Damiano, che farebbero qualunque gioco insieme a noi.

Stasera, prima di dormire, sotto questo cielo zuppo di stelle nell’emisfero opposto, pensiamo solamente che tutti noi siamo stati bambini e che è proprio un dono grande poter intrecciare la nostra vita con quella di questi bambini.

I campisti malgasci – Ampasimanjeva 18/08/2018

Dal Madagascar – ragazzini al mercato, Giulia Farri e Cela’

Luglio 2018

Ciao a tutti!
Questo mese le parole faticano un po’ ad uscire quindi mi affiderò anche stavolta ad una persona,
precisamente un ragazzino, raccontandovi la sua storia, un po’ meno divertente di quella di Ricot!
I due bimbetti che vedete in foto sono Iabelen (il più piccolino) e Celà!

Celà, il protagonista di questa storia, con il suo amico Iabelen

Il “protagonista” di oggi è Celà.
Ha 14/15 anni, nemmeno lui lo sa, strano eh?! Stando qui però scopri che è una cosa usuale non sapere la propria età, spesso anche i genitori non lo sanno e più l’età avanza più è difficile avvicinarsi
alla presunta cifra esatta!
La prima volta che ho incontrato Celà ero
con Enrica al mercato, a comprare il riso per Ambokala, si sono avvicinati lui e un altro ragazzotto sordo-muto per chiederci qualcosa da mangiare, Celà non parlava, faceva solo gesti per farsi capire da noi e dall’amico, fingeva di essere muto anche lui, un po’ per comodità e un po’ per comunicare con il suo compare!
Da quel momento Celà è entrato a far parte di quelle persone che vedi una volta e non ti scordi mai, ha iniziato a venire al centro ragazzi di cui si occupa Lorenzo in cui io faccio servizio al mercoledì pomeriggio, piano piano ho iniziato a conoscerlo un po’ meglio.
Celà fa parte di un gruppo di 5/6 ragazzetti che dorme e vive al mercato, cosa che per la maggior parte dei malgasci è normale, ma che per me non lo sarà mai, faccio fatica a farmene una ragione, bambini da soli al mercato, senza niente se non i pochi vestiti che hanno addosso.
Celà è un ragazzo dolcissimo con un forte bisogno di attenzioni e non manca una buona dose di furbizia come in ogni quattordicenne del mondo.
Un paio di settimane fa è venuto a cercarci a casa perché stava male, aveva la varicella e abbiamo iniziato a curarlo. Per cinque giorni ogni mattina ci incontravamo e gli portavo le medicine della giornata e piano piano è guarito. Una delle ultime mattine ne abbiamo approfittato, l’ho portato con me al centro d’ascolto di Diana e abbiamo cercato di conoscere un po’ la sua storia per provare ad aiutarlo, cercare di capire se aveva ancora un famiglia, se era stato abbandonato o se era scappato. I suoi genitori si sono separati, la mamma vive con un altro figlio e il suo nuovo marito che a dire di Cela è cattivo, lo tratta male e non lo vuole in casa.
Il padre, anche lui risposato con 5 figli, lo abbiamo trovato e siamo riuscite a parlargli…non mi è piaciuto, io non riesco a fare queste cose senza inevitabilmente affezionarmi alle persone, in particolare ad un ragazzino solo che ha un padre che si mette a ridere quando gli dici che il figlio è stato molto malato ed è dovuto venire a cercare noi perché non sapeva dove trovare la sua famiglia e che se gli chiedi se è disposto a riprenderlo con lui se si comporta bene ti risponde “No, lui non va bene!”.
Come?! È tuo figlio, lo hai messo al mondo tu, come fa a non andare bene?! Come fanno lui e la madre a dormire di notte sapendo che loro figlio dorme al mercato da solo, senza nulla e al freddo, che ruba per rivendere ed avere i soldi per riuscire a mangiare!
Abbiamo sperato per un attimo di riuscire a togliere un ragazzino dal mercato, dargli almeno una casa ed un tetto sotto cui dormire ma non è così semplice, stiamo valutando altre opzioni ma si vedrà perché Celà deve essere il primo a voler far qualcosa per cambiare la sua vita perché un’altra cosa mi sconvolge abbastanza: parlando con questi ragazzi capisci che loro al mercato stanno “bene” hanno scelto di farlo, nel limite del possibile, sono ambientati e si sono creati una famiglia tutta loro, ovviamente i lati positivi per loro sono tanti: vivere senza regole, senza orari, senza dover studiare o lavorare e stare tutto il tempo con gli amici giocando e scorrazzando in giro; diventa quindi difficile rinunciare a tutto questo e andare magari in una comunità in cui si studia e si deve stare a delle regole, devono proprio essere loro a volerlo, tu non puoi fare altro che proporglielo e cercare di farli
ragionare sul loro futuro.
In tutta questa storia abbastanza triste, diciamolo, c’è una cosa che mi fa sorridere e che mi piace tantissimo: questi ragazzi sono così legati da essere diventati una vera e propria famiglia, quando Celà aveva la febbre gli sono stati dati dei vestiti pesanti per stare un po’ più coperto, i suoi vecchi vestiti dove sono finiti? Il giorno dopo, dopo averli lavati, erano addosso ad uno dei suoi amici del mercato che prima aveva dei vestiti completamente distrutti e da buttare, anche quando è ora di mangiare, si incontrano e mettono insieme quello che ognuno di loro ha trovato, dal cibo ai soldi che la gente gli dà e si dividono tutto per poter mangiare qualcosa tutti!
Da questo posso proprio dire che è proprio chi ha meno che condivide di più e spesso ti insegna di più! Non sono contenta del risultato, ma ho imparato tanto dalla storia di Celà e so che sarà una di quelle storie che non mi scorderò mai e che mi voglio portare a casa!
Mi sembra giusto condividerla anche con voi sperando che arrivi anche solo una briciolina di quello che ho provato vivendola!
Giulia