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Madagascar bambini

Vaovao dal Madagascar!!

Ciao a tutti amici, in questo mese la mia attenzione e i miei pensieri si sono focalizzati maggiormente sui bambini.  

A scuola (centro papillon) dove presto il mio servizio, dai malati di Tbc, per strada, in ospedale.. Sono tanti i momenti che condivido con i bimbi. 
Ah, i bambini.. Certe volte mi fermo a guardarli in silenzio, SONO COSÌ BELLI, e sono anche buffi da vedere. Certo sono bambini comuni, ma sono speciali, perché cresciuti con consapevolezze, esempi e certezze completamente diverse dalle nostre occidentali. Stando con loro sì percepisce la loro grande gratitudine nel avere qui accoglienza e punti di riferimento. Sono così spontanei, semplici, si a accontentano davvero del niente e sembrano non farci caso a tutto ciò che riguarda guarda l’aspetto estetico delle cose. Vestiti strappati, rovinati, a piedi nudi, nel fango, sporchi di terra che corrono di qua e di là, risultano così belli, così tanto da attirare la mia attenzione su cose più semplici.
Così da mettere in discussione il mio concetto di ‘ normalità’. Da quando sono qui la mia normalità è diventata la loro, certi comportamenti, certe stranezze che notavo all’inizio e che mi lasciavano a bocca aperta, adesso per me sono quotidianità. Amo i miei bimbi, sono loro che giorno dopo giorno mi insegnano quanto sia bello stare al mondo in maniera così semplice. MoltoMadagascar bambini spesso gente che mi conosce dice di me  che  sono una persona coraggiosa, in realtà non penso proprio di esserlo.. anzi.
Ho preso una decisione, ovvero cambiare un po’ la mia vita e spendere del tempo in tranquillità e trovare una pace interiore. Qui ho stretto legami che non si spezzeranno mai, ad ampa ho aperto il mio cuore , qui le persone che amo devono lottare un po’ di più per riempire lo stomaco e per arrivare a fine giornata. Ma sono persone normali esattamente come tutti, e hanno tanto da insegnare.

Può sembrar strano per voi, ma sto bene e sono tanto felice, mi sento a casa. 

A quasi un anno dal mio arrivo qui in Madagascar, desidero posticipare il mio rientro di un po’.. consapevole che certo, i momenti di difficoltà ci sono stati e a volte ci sono ancora., come è normale che sia.. Ma so che ora sono in grado di affrontarli in maniera diversa perché c’è qualcuno che mi indica giorno dopo giorno la giusta strada. 
Grazie per continuare aMadagascar bambini leggermi, per rivolgermi piccole attenzioni anche da qui! 

È bello ricevere affetto! 

Veloma!

Un grande abbraccio a tutti, buona estate! 

Vi auguro di trovare un piccolo angolo di paradiso, così come Ampa lo è per me. 

Ila                          

 

Ilaria e il piccolo Randria

Da Ampa: essere presenti per Randria

Akory aby anareo!!! Ciao a tutti!
Sono passati un bel po’ di mesi dal mio arrivo in Terra Rossa e sono molte le situazioni, le cose e le persone incontrate.

Tra questi vi è Randria, un bimbo, il mio, di 8 anni a cui da  poco è stato diagnosticato un problema ai reni e che una mattina di novembre insieme a Giulia abbiamo portato in ospedale del villaggio (FMA), perché gonfio in ogni singola parte del corpo. Randria studia nella scuola (Centre Papillon) legata all’ospedale e gestita da noi Volontari ed è un bimbo allegro, intelligente e coccolone.

Il piccolo RandriaQui in Madagascar dal momento in cui il malato viene ospedalizzato è compito della famiglia provvedere ad ogni necessità, proprio come fanno gli infermieri in occidente. Purtroppo la famiglia di Randria non ha una storia tanto facile.. Sono in 11 figli (o di più.. Non lo sanno nemmeno loro), il papà va e viene e sua mamma è sempre ubriaca. Quindi data la situazione, dopo la partenza per l’italia di Giulia (volontaria qui prima di me) Randria è diventato un mio pensiero fisso. Passavo le mie gionate in sua compagnia, dandogli le medicine al giusto dosaggio e curandomi di lui in ospedale. Con il passare dei giorni non vi era nessun miglioramento, anzi sembrava essere ancora più gonfio oltre al non riuscire a fare la pipí.

Abbiamo scoperto così che uno dei motivi erano le medicine malgasce (erbe, infusi, pozioni) che la sua famiglia somministrava di nascosto. Dopo aver parlato molto chiaramente con sua mamma, nell’arco di 2 settimane i miglioramenti sono stati evidenti. La sua pancia e le sue gambe si sono sgonfiate e la sua voglia di disegnare e giocare si è fatta sentire molto di più… Ed io sono stata molto felice. Ho pregato tanto, anzi, abbiamo pregato tanto, abbiamo riso, giocato, riempito la parete del suo letto di disegni e ci siamo fatti tante coccole, abbiamo trascorso ogni giorno insieme proprio come una vera famiglia. I medici e chi conosce Randria mi chiede come sta ‘mio figlio’ e  mi chiama “mama’ny Randria’. La sua dimissione il giorno della vigilia di Natale, ha riempito il mio cuore e quello di Randria di gioia, insieme a chi ci è stato accanto.

La casa di randria con i disegni del piccolo affissi alle paretiAd oggi la sua situazione è migliorata parecchio, continua a fare le visite e prendere le medicine tutti i giorni qui da me. Sono tornata proprio adesso  da casa sua con il cuore felice solo perché ho visto alcuni dei disegni, fatti in ospedale, appesi dentro la loro umile capanna.

A volte non ci sono davvero parole per dare risposta agli interrogativi di chi soffre. Per questo basta la presenza di chi c’è, è vicino, ama e tende la mano.

In questi mesi accanto a Randria mi è capitato spesso di sentirmi impotente, inutile. Mi arrabbiavo  con me stessa per non riuscire a cambiare questa situazione ma ho imparato che ci sono cose che non dipendono da noi e che sono più grandi di noi.

Spesso mi sono ritrovata a guardare verso l’alto, a pensare che non ero sola, e che qualcuno è sempre vicino a me.

‘ che cosa vuol dire addomesticare? – Vuol dire creare dei legami’
‘Tu diventi responsabile per sempre di ciò che hai addomesticato’

Un grande saluto qui da Ampsimanjeva, a presto!
Ilaria Squicciarini

Notizie (vaovao) dal Madagascar

Carissimi amici di tutto il mondo a cui mi sento connessa,
è giunto il momento di aggiornarvi su di me: briccona vagabonda di nome Chiara Bezzi.
Sto bene! Sto come d’estate, in foresta tropicale, sotto il sole, poi alla pioggia e poi di nuovo al sole, con l’umidità alle stelle…Sudata!
Non riesco ad immaginare che li in Europa sia inverno, che ci sia freddo, che ci sia la neve; non mi sono nemmeno accorta che è già passato il non-stop-eating delle feste natalizie con pranzi/aperitivi/cene impegnativi e ancor meno che siamo già nel 2019!
Ma facciamo un passo indietro…Uh signur, tenetevi forte perché ho tanti mesi da recuperare!

Da dove partire?
Iniziamo con questo aforisma che descrive in poche frasi quello su cui sto cercando di ragionare/lavorare in questo momento: “La sola vera trappola è restare attaccati ad ogni cosa, le rovine sono un dono. La distruzione è la via per la trasformazione. Anche in questa città eterna (Roma), l’Augusteo mi ha dimostrato che dobbiamo sempre essere pronti ad ondate infinite di trasformazioni”. Cit. Mangia, prega, ama.
Bene, ora che ho fatto un po’ l’alternativa con parole non mie, vi racconto…capirete pian piano il perché della citazione.
Il mese di novembre è stato un po’ caotico:
• partenza e ritorno in Italia del Monpera – Don Giovanni Ruozi dopo 11 anni di servizio in Madagascar;
• ingresso nella parrocchia “Gesù Misericordioso” ad Ambalapahasoavana di Manakara del nuovo parroco Don Luca Fornaciari e aiuto parroco Don Simone Franceschini;
• veloma – saluto a Dario, Enrico e Tania, servizio civilisti di RTM che sono rientrati in Italia dopo il loro anno di servizio.
• Arrivo di un’equipe di medici, chirurghi, dentisti ed infermiere dell’ONG Belga “H.E.L.P vzw”

ingresso nella parrocchia “Gesù Misericordioso” ad Ambalapahasoavana di Manakara del nuovo parroco Don Luca Fornaciari e aiuto parroco Don Simone Franceschini

L’ingresso dei don in parrocchia a Manakara è stata una giornata bellissima e molto sentita! La messa celebrata da monsignor Gaetano, vescovo della diocesi di Farafangana, è stata una vera e propria accoglienza festosa ai nostri cari don. È stato emozionante assistere all’apertura delle porte centrali della chiesa ed entrare insieme a tutta l’assemblea invitati dai due monpera; ballare e cantare a fine della celebrazione, quando i parrocchiani si sono avvicinati all’altare in una fila danzante raccogliendo sul loro cammino Don Luca e Don Simone; il momento dei Kabary – discorsi, quando il presidente della parrocchia, si è presentato con un kabary in lingua Italiana!! Sorprendente, davvero! È una cosa che mi ha colpito nel profondo, perché mi ha fatto sentire importante, accolta e rispettata da persone che neanche mi conoscono. Guardate la potenza di un

 

 

 

Salvatore e Giardo al lavoro

Dopo tutta questa festa, siamo tornate nella nostra piccola Ampasimanjeva e ci siamo preparate all’accoglienza di tre storici meccanici: Giardo, Salvatore e Stelio, venuti per aiutare il nostro direttore Giorgio nel suo lavoro; e l’equipe missionaria belga che da 5 anni ormai scende in Madagascar per collaborare con il nostro ospedale.
Quest’anno per due settimane si sono dedicati alla formazione dello staff sull’estrazione di denti, alcuni tipi di interventi chirurgici (in particolare prostatectomie) ed il loro decorso post-operatorio. Il programma di lavoro è stato molto molto molto intenso, ma sono contenta di avervi preso parte; tutta la fatica ne è valsa la pena. Anche io, insieme allo staff dell’ospedale sono stata accolta nel team in modo molto caloroso ed è stato veramente bello lavorare insieme.

Io e Gina

Tra i pazienti che non scorderò mai più, di cui voglio condividere la storia, c’è Ginah. È una ragazza di 27 anni (quindi 2 anni più grande di me), con già due figlie piccole, ricoverata per un ascesso al dente che aveva provocato una grande infezione e raccolta di pus in tutta l’area mediastinica (alto torace). Anche se faceva fatica a parlare per via del dolore e per il gonfiore ad ogni medicazione mi chiedeva spesso se sarebbe guarita e quando… inutile dire
che non nutrivo molte speranze per lei anche se facevo del mio meglio per medicarla ed estinguere l’infezione. Più volte mi sono sentita veramente impotente, soprattutto il giorno della quarta medicazione quando, prima di incominciare, ha avuto una emorragia della ferita e ha perso molto, anzi troppo sangue. Vorrei farvi capire cosa si prova a stare li nel momento dell’urgenza, a tamponare una maledetta emorragia che non si ferma, mentre una ragazza della tua età circa ti guarda terrorizzata cercando uno sguardo rassicurante perché ha capito che la sua situazione è diventata inaspettatamente critica; mentre la sua famiglia li fuori che aspetta capisce che c’è qualcosa che non va. Beh, io ho stampato nella memoria quel momento: il suo sguardo, le sue mani che mi stringono le braccia e la stessa domanda ripetuta insistentemente “Sto per morire? Eh Vazaha – straniero? Ma sto per morire?”. So come ci si dovrebbe comportare in queste situazioni, l’ho studiato…si sta calmi e lucidi, non ci si fa toccare dallo stress, ma ci si concentra sul paziente, lo si rassicura, si organizza il lavoro e si agisce; ma quando ti capita per davvero di avere una vita per le mani e sei da sola perché tutti sono impegnati ovviamente tutto va a farsi benedire. Continui a ripetere alla paziente di stare tranquilla e respirare, che tu sei li con lei, che andrà tutto bene e lei non morirà, ma sapete è difficile risultare credibili se per primi non si è sicuri di cosa succederà…forse lo ripetevo più a
me stessa che a lei. Per la cronaca, non è che ci sono solo io in ospedale; ho preso in carico Ginah al suo arrivo e tuttora è una mia paziente. Poi in quel periodo in particolare abbiamo avuto veramente tanto lavoro, e tutti correvamo avanti e indietro come matti.
Beh fortunatamente una delle infermiere ha ascoltato le mie richieste ed è arrivata per darmi il cambio nel tamponare così che io potessi andare a prendere il materiale necessario per fermare l’emorragia. In seguito abbiamo chiesto consulenza all’equipe belga che ha accettato di aiutarla nonostante non fosse in programma e nonostante non fossimo certi di poterla salvare; poche ore dopo era in sala operatoria dove sotto sedazione (perché qui non è ancora
possibile fare interventi in anestesia generale) i dentisti hanno tolto i denti che hanno causato l’infezione, mentre io e gli altri abbiamo pulito la cavità e l’abbiamo medicata.
Da allora medichiamo la sua ferita quasi tutti i giorni, io non sono più Vazaha – straniero, ma sono Cherie – tesoro e con grande sollievo di tutti Ginah si è ripresa alla grande ed è quasi guarita!
Tra i ricordi più belli che ho insieme a lei c’è questo: poco prima di capodanno Ginah ha chiesto di poter tornare a casa per stare un po’ con la sua famiglia e poi ritornare per continuare la medicazione. Essendo fuori pericolo, il Dott. Martin ha acconsentito alla sua partenza e lei felice come una bambina è passata in ambulatorio per salutarmi. Dopo aver chiacchierato un po’ è rimasta a guardarmi in silenzio e poi tutto d’un colpo mi ha abbracciato forte la vita, ha immerso la faccia nella mia casacca ed è scoppiata in un pianto liberatorio. Che roba amici, che intensità…ho rischiato di piangere anche io! Ho pensato che è davvero una fortuna grande fare la differenza per qualcuno e sentirlo sulla pelle.

Una parte ell’equipe belga H.E.L.P con il Dott. Martin e Francois, caposala,
al lavoro in sala operatoria

In tutto questo, sento di dovere ancora un grande grazie all’equipe belga, una vera e propria benedizione per l’ospedale. Nei pochi giorni che sono stati qui hanno lavorato senza risparmiarsi: oltre a Ginah, hanno salvato un’altra ragazza, hanno estratto denti a più di 300 persone prevenendo il rischio di infezione e di ascessi, hanno operato almeno 4 pazienti al giorno formando i chirurghi, il personale di sala e post-operatorio così che oggi l’ospedale è in grado di eseguire gli stessi interventi in autonomia . Il loro lavoro e la loro dedizione mi hanno
ispirato. Spero anch’io un giorno di poter far parte di un’equipe come la loro. 
Grazie, grazie, grazie.

 

Siete già stufi?? Ma come!!!! Ho ancora un sacco di cose da raccontare! Faccio presto lo giuro…

Immagine dal Pangalana di Mananjary

Dicembre ha portato con se tanti ospiti in visita alla missione ed un caldo afoso: tra questi Lucia Braghiroli amica di Giulia Capotorto. Poco prima che Giuli ci salutasse abbiamo approfittato della sua partenza per fare una piccola rilassante gita di comunità: quindi con tutte le masere – suore, i frera – frati, sarambe – ragazze siamo partite alla volta della casa di carità di Mananjary, una città in riva all’oceano. Le masere della casa ci hanno preparato un picnic sorpresa che abbiamo gustato su un battello navigando il Canal des Pangalanes – una via d’acqua artificiale a ridosso della costa orientale del Madagascar che consente la navigazione da Toamasina/Tamatave fino a Farafangana altrimenti troppo difficile. Poi è arrivato il Veloma – saluto di Giulia, la sua partenza per l’Italia e l’arrivo dei genitori di Giorgia Roda e Giulia Farri per passare insieme le feste.

A proposito di festività: io, cari, ho passato il mio primo Natale al caldo…e che caldo!!!

Pranzo di Natale, con i malati di tubercolosi e le loro famiglie

Quest’anno la “famiglia” con cui ho festeggiato il 25 dicembre è stata quella dell’ospedale, un bel pranzo in compagnia dei malati di tubercolosi, le loro famiglie, e una festa in ospedale con balli, canti, giochi e chi più ne ha, più ne metta. Le suore hanno cucinato riso e carne di omby – zebù per tutti. Il mio compito in tutto questo, oltre ad aiutare le suore, è stato quello di preparare i dolci, che felicità!!!
Come dicevo ad alcuni è proprio vero che il buon cibo scalda il cuore e fa nascere sulle labbra un sorriso, soprattutto se condiviso…già distribuire cibo gratuitamente da una sensazione di felicità; se in più il cibo è buono, vedi gli invitati che lo gustano, chiacchierando, scherzando tra di loro, divertendosi a pancia piena e felici allora
diventa una grazia!

 

 

 

Preparazione al Natale

Ah, a proposito di preparazione di feste, clima natalizio e buon cibo, anche se non siamo a Reggio Emilia, non vuol dire che ci siamo scordati le nostre tradizioni; poche settimane prima di Natale, infatti, insieme alle masere ho preparato i cappelletti per la cena di natale!!

L’arrivo dell’anno nuovo, invece, lo abbiamo festeggiato insieme a tutti gli altri volontari, i servi della chiesa e alcuni operai a la Ferme “San Francesco” di Analabe, Manakara. È stata una cena molto semplice in compagnia, seguita da balli senza fine e un “brindisi” sotto il cielo stellato; e il primo giorno del 2019 è stato inaugurato da un bel bagno nell’oceano, una cena insieme per salutare Giorgia…eh si, anche Giorgia ha finito il suo anno di servizio qui in
Madagascar ed è tornata a casa proprio pochi giorni fa; ed una settimana di esercizi spirituali, svoltisi ad Antananarivo e guidati da Don Antonio Crispino sceso in Madagascar poco dopo Natale insieme a Don Pietro Rabitti e Lorenzo Malagoli (volontario rientrato in missione dopo le vacanze in Italia). È stata una settimana stimolante e, anche se nel silenzio, lo stare insieme con gli altri volontari è sempre un bel momento di condivisione.

Capite ora l’aforisma di prima? Con tutti questi cambiamenti veloci e continui, il confronto quotidiano con una cultura così diversa dalla tua, questo andirivieni di famiglie, amici, persone etc etc, è importante non essere irremovibili ed aggrapparsi troppo alle proprie certezze ma è necessario essere pronti ad ondate infinite di trasformazioni senza paura di essere annientati. Io spero proprio di riuscirci pian piano e per il nuovo anno auguro anche a voi questo: di non aver paura dei cambiamenti…ma di investirci sempre più energie e tempo
per affrontarli al meglio.
Tratrin’ny ho avy amici! – Buon 2019, buon tutto quello che verrà!
A presto, con affetto!
Chiara Bezzi

La preparazione delle medicine all'ospedale di Ampa

Grazie! Auguri dall’FMA

A tutti voi, che portate nel cuore Ampasimanjeva e le avete donato il vostro contributo, un grande e sincero GRAZIE. Anche quest’anno sono stati tanti i pazienti visitati e ricoverati nei vari reparti dell’ospedale di Ampasimanjeva in Madagascar, molti dei quali provenienti da villaggi lontani.

L’Ospedale offre un servizio sanitario qualificato ed efficace per tutta la popolazione della regione (11 comuni, 110.000 abitanti). Lo scorso anno sono stati visitati 16.631 pazienti e le consultazioni chirurgiche sono state 1.047, i malati ricoverati 2.213 e sono stati fatti 518 vaccini a bambini in età compresa tra 0 e 11 mesi. Le visite prenatali sono state 6.116.

Sono tanti numeri, ma non vogliamo annoiarvi continuando così, perchè per quelli ci sono le statistiche e i rapporti ufficiali. Quello che vogliamo esprimere è che sono numeri alti e significativi, di un ospedale che lavora a pieno ritmo. Non si limita più solamente alla valle del Faraony, ma è diventata un centro di riferimento per tutta la zona Vatovavy Fitovinany e della regione sud-est per diverse patologie quali ad esempio quelle cardiologiche, chirurgiche e ginecologiche-ostetriche.

La vaccinazione dei bambini ad AmpasimanjevaTutto il lavoro che fanno i medici, gli infermieri e il personale sanitario per garantire ai pazienti le migliori cure di cui necessitano, è reso possibile grazie al vostro contributo, alle donazioni di privati, associazioni o singoli, che aiutano così la struttura a continuare a offrire un eccellente servizio. È a voi che tutto il personale dell’FMA rivolge i più sinceri ringraziamenti con questa lettera. Le vostre donazioni si trasformano in cure, farmaci, giornate di formazioni, apparecchiature mediche e meccaniche, cibo. Le attività della gestione dell’FMA non si limitano solo all’Ospedale, ma anche all’officina meccanica e di falegnameria e al laboratorio di Marosokatra, dove vengono prodotti succhi di frutta di litchis e ananas, principalmente.

Inoltre, il 2018 è stato un anno di transizione tra la fine del progetto “Salute madre-figlio” e l’inizio del nuovo progetto che prenderà il via a marzo 2019. Con alcune donazioni è stato possibile portare avanti le attività nei villaggi, visitando le donne incinte e pesando i neonati. Si è potuta fare la formazione alle ostetriche e alle levatrici tradizionali dei villaggi, oltre a raccogliere i dati per predisporre una schedatura per le consultazioni prenatali.

I bambini della scuoletta PapillonAltra attività satellite dell’ospedale è il “Centre Papillon”, una struttura in cui i bambini che non possono permettersi di andare a scuola, vengono accolti e aiutati ad imparare le nozioni base di matematica e malgascio. Quest’anno abbiamo realizzato una toilette, a cui possono accedere i bambini. E’ stato possibile anche iscrivere alla scuola pubblica alcuni bambini che hanno dimostrato impegno e perseveranza nello studio, per dar loro l’occasione di avere un’istruzione più completa.

La Fondation Medicale, in conclusione, gestisce non solo l’Ospedale, ma anche tutte queste attività, che necessitano di donazioni per continuare e rafforzare i lavori che quotidianamente svolgono. Vi invitiamo quindi a continuare a sostenere l’FMA, anche con un piccolo gesto, e vi ringraziamo nuovamente di cuore per l’aiuto che avete generosamente offerto.

Auguriamo a Te e alla Tua famiglia un buon Natale!

Ancora grazie dalla Comunità di Ampasimanjeva

Per la comunità Giorgia Roda

Il dottor Martin all'opera

Intervista al dottor Martin

Martin Randriatiana è il primario, chirurgo e direttore sanitario dell’FMA (Fondation Medicale d’Ampasimanjeva). Ha studiato medicina ad Antananarivo, si è specializzato in chirurgia, ha seguito un corso di medicina tropicale a Brescia e un master in ginecologia e anestesia a Scandiano (provincia di Reggio Emilia), mentre faceva uno stage all’ospedale di Sassuolo. Oltre a tutti questi titoli, il dott. Martin è un uomo estremamente gentile e paziente per cui, nonostante le tante cose che ha da fare tutti i giorni è riuscito a trovare il tempo per rispondere a qualche domanda.

 

Quando sei arrivato ad Ampasimanjeva e come mai proprio in questo ospedale?
Sono arrivato nel febbraio 1986, subito dopo aver finito gli studi. Durante il terzo anno di università mi sono sposato e prima della laurea io e mia moglie avevamo già due figli [adesso ne hanno quattro, di cui due vivono e lavorano in Italia, ndr]. Facciamo parte di un’associazione di medici cristiani e il responsabile, dopo averci chiesto se eravamo disposti a lavorare in uno degli ospedali di campagna con cui era in contatto, ci ha proposto di venire ad Ampasimanjeva. Abbiamo accettato e da quel momento non me ne sono più andato.

Perché hai deciso di rimanere a lavorare qui?
Nel corso degli anni ho ricevuto diverse offerte di lavoro, alcune anche molto prestigiose e ben retribuite, ma le ho rifiutate tutte. Qui mi sento davvero un medico, posso studiare e continuare ad imparare e ho la possibilità di fare trattamenti e cure secondo le tecniche che ci sono in Italia o in America. Negli altri ospedali si applicano solo protocolli standard, che non danno spazio all’evoluzione e all’innovazione; qua invece posso studiare una tecnica usata in un altro Paese e applicarla.
Mi sono innamorato di Ampasimanjeva e voglio rimanerci.

una visione panoramica della gente che attende fuori dall'ospedale di Ampa

Quali sono i cambiamenti più evidenti che ci sono stati in questi anni?
Quando sono arrivato facevamo i vaccini ai bambini nei villaggi, ogni giovedì. Capitava spesso, però, che una volta arrivati nessuno era pronto perché non avevano sparso la voce o non avevano ricevuto l’invito quindi era una perdita di tempo e di risorse. Adesso i vaccini si fanno in ospedale e ci sono più di 100 bambini ogni settimana.
L’altra grande differenza è che all’inizio era tutto gratuito, le persone non pagavano né la consultazione né le medicine e arrivavano ogni giorno 200 persone per farsi visitare; quando ci siamo accorti che spesso le persone buttavano via le medicine (se non era di loro gradimento il colore o il gusto) è stata inserita una quota di partecipazione minima in modo da non avere un così grande dispendio di farmaci e risorse [la quota che si chiede è comunque molto inferiore rispetto a qualsiasi altro ospedale del Madagascar, per esempio qui una scatola di paracetamolo che costa 3000 Ar, la pagano 300 Ar].
Il più grande cambiamento, però, è stata la sala operatoria. Dal 1997 ha iniziato ad essere in funzione e all’inizio si facevano solo parti cesarei, poi si è iniziata a fare formazione per operare le idroceli e poi si è iniziato ad essere operativi per tutti gli interventi addominali d’emergenza. Dal 2014 l’FMA è il punto di riferimento per gli interventi di fistole. È una pratica che inizia adesso ad essere presente nella formazione universitaria, ma per il momento sono uno dei pochissimi chirurghi che esegue questa operazione.
Abbiamo la possibilità di imparare da tutti i medici che passano di qua, a partire dai medici belgi che fanno servizio un mese all’anno come dentisti, ma anche chi si ferma di più: con l’arrivo e la permanenza della dottoressa Anna Maria Zuarini, per esempio, la cardiologia ha fatto un grande passo in avanti.

Quale senti essere la priorità dell’ospedale in questo momento?
Per migliorare avremmo bisogno di macchinari per il laboratorio. Al momento si riescono a fare solo esami che prevedono l’uso del microscopio, ma non sono esaustivi e così non è possibile individuare diverse patologia che invece sarebbe possibile vedere facilmente con altri tipi di esami e macchine apposta.

 

 

Quali sono i punti di forza dell’FMA?
Credo ci siano diversi aspetti; il primo è l’essere un ospedale di stampo cristiano. Qui tutti, i medici, gli infermieri, gli operai, lavorano con il cuore, non solo per il salario, ma per il bene delle persone che aiutano e con cui lavorano.
Il blocco operatorio è un’altra cosa che funziona bene, riusciamo ad eseguire interventi e far guarire il paziente nella quasi totalità dei casi, si verificano pochissime infezioni post-operatorie e la degenza dopo è di massimo 8 giorni, un risultato invidiabile. Anche essere un punto di riferimento per gli interventi di idrocele e fistole è senz’altro un punto di forza, ma è un luogo importante anche per le donne incinta che qui possono ricevere cure e operazioni raramente eseguite in qualunque altro ospedale.

visione esterna dell'ospedaleCosa ti auguri per il futuro della Fondation Medicale?
Vorrei che, migliorando alcuni aspetti, si potesse continuare a lavorare così. L’aiuto dell’Italia è prezioso e ci permette di fare molte cose che altrimenti non potremmo fare.
Se cambia il governo [ci sono le elezioni a novembre] cambierà anche l’attuale legge che vieta l’introduzione di farmaci provenienti da Paesi stranieri e si potrà ricominciare a ricevere medicine dall’Italia. I farmaci che abbiamo a disposizione in Madagascar adesso sono limitati e molto costosi, per cui se cambiasse quella legge sarebbe una svolta molto positiva per tutto il Paese.
Parlando di futuro… io prima o poi andrò in pensione, quindi spero che ci sarà qualcuno pronto a prendere il mio posto, ma finchè ci sarò io mi impegnerò per lavorare al meglio, migliorando io in prima persona come medico, studiando per mettere a disposizione delle persone quello che imparo

Intervista a cura di Giorgia Roda

I bambini alla scuola Papillon

Cosa c’è di nuovo? Inona ny vaovao??

Akory aby!!! (ciao a tuttiiiiii!)
Il mese di agosto sono venuti i campisti a trovarci per visitare un po’ le missioni di Reggio Emilia in Madagascar. Io ho avuto la fortuna di accompagnarli in diverse “tappe” ed è stato proprio bello passare del tempo con loro, è stato come sovrapporre due mondi fino ad ora così lontani, e diciamo che hanno portato un po’ di casa anche qui. Abbiamo condiviso tanti momenti, hanno osservato tanto, hanno fatto domande, ci hanno aiutato nei servizi, hanno espresso i loro dubbi e abbiamo fatto anche delle belle risate insieme. La loro curiosità mi ha obbligata a ripercorrere questi mesi, mi ha fatto riflettere su come li sto affrontando e le loro osservazioni mi hanno riportato un po’ a quello stupore e a quella meraviglia iniziale che con il tempo rischiano di perdersi. E così ho pensato fosse arrivato il momento di condividere anche con voi le novità della variopinta Ampasimanjeva.
Per cominciare, da metà maggio abbiamo vinto una nuova compagna di viaggio, così ora siamo in tre volontarie (io, Giorgia e Chiara) e ci stiamo preparando per accogliere Ilaria (non si sa perché ma l’affluenza maschile è ancora piuttosto bassa…). Vi dirò che essere in “tante” è davvero una bella ricchezza. I momenti di condivisione insieme sono uno stimolo per riflettere sulla settimana, per fare emergere le difficoltà e per gioire insieme delle piccole soddisfazioni. E poi così anche i problemi e le fatiche vengono affrontati da diversi punti di vista che spesso portano speranza e coraggio!
A scuola invece procede tutto bene. Grazie a varie offerte a marzo abbiamo comprato dei banchi, mentre a giugno siamo riusciti a inaugurare un piccolo bagno. Non potete immaginare quanti bambini abbia attirato! Non solo hanno iniziato a venire quasi tutti regolarmente, ma fanno addirittura a gara a chi si lava le mani e i piedi per primo prima di entrare in “classe”.
Ah, per chi ancora non avesse sentito parlare di questa scuola, proverò a darvi brevemente qualche informazione. Il vero nome è Centre papillon, e non si tratta proprio di una scuola, ma piuttosto di un luogo dove accogliere i figli dei malati ricoverati in ospedale e i bambini di Ampasimanjeva che per vari motivi non studiano più. Ad organizzare le attività quotidiane c’è una signora malgascia e io provo ad aiutarla un po’ come posso, soprattutto nella gestione dei bambini. I bimbi sono circa 60, tra quelli che vengono al mattino e quelli del pomeriggio, l’età varia dai 2 ai 13 anni e da qualche mese abbiamo deciso di dividerli in tre gruppi: i piccoli, quelli che stanno imparando a leggere e scrivere e quelli già bravini. Indipendentemente dall’età, il livello di alfabetizzazione è molto basso, e non vi nascondo che inizialmente per me è stato piuttosto difficile da accettare. Com’è possibile che a 10 anni un bambino non sappia scrivere il proprio nome? E perché per tutti qui è normale che sia così? Perché non si investe sull’istruzione? Perché ripetiamo per due ore i colori e i bambini continuano a non riconoscerli? Poi piano piano ho iniziato a capire che qui le priorità sono altre, soprattutto nelle famiglie più povere. Ho visto che le bambine già da piccole iniziano a prendersi cura dei fratelli, a cucinare per loro, a sgridarli quando si fanno male e allo stesso tempo a confortarli per farli smettere di piangere, proprio come delle mamme. I bambini invece spesso aiutano gli uomini a pascolare gli omby (zebù) o a preparare il terreno per le risaie, ed è chiaro che nei momenti liberi preferiscono far volare un aquilone, costruire una macchinina di latta o fare qualche giro in bicicletta. Ecco, diciamo che se all’inizio mi preoccupavo di dover fare, di programmare, di voler vedere risultati, ora sto iniziando a capire che a volte bisogna anche sapersi accontentare e che davvero non sono qui per cambiare il mondo ma per lasciarmi toccare e provocare da una cultura così differente dalla nostra.
Ed è quello che sto imparando anche con i tubercolotici (non più contagiosi!) e con le loro famiglie. Durante la settimana cerco sempre di ritagliarmi dei momenti per stare con loro. Non so bene perché ma proprio con loro io riesco ad essere così serena e così me stessa, tanto da dimenticarmi, a volte, di essere una vazaha (straniera) e allora ne approfitto un po’ per conoscerli meglio. Sto davvero imparando tantissimo! Mi insegnano parole del dialetto antaimoro (l’etnia che vive in questa zona del Madagascar), mi spiegano alcuni dei loro fomba (tradizioni) e dei loro fady (tabù), mi fanno conoscere un po’ di geografia raccontandomi da dove provengono, mi insegnano a pulire gli ampalibe (frutto che matura in questo periodo), mi fanno ascoltare le canzoni del momento, mi mostrano come realizzano quei bellissimi cappellini di rafia che portano in tanti e mi fanno vedere come in cinque minuti le donne riescano a riempire di treccine la testa di qualunque malgascio. E più imparo e più mi sento accolta.

Poi ci sono le nostre masere (suore) che ogni giorno, oltre a prepararci degli ottimi pasti (potrebbero davvero aprire un ristorante!), ci accompagnano con la preghiera e con tante chiacchiere. Spesso ci fanno riflettere su quello che non capiamo, ci danno consigli preziosi, ci confortano quando siamo un po’ malinconiche e sono davvero un esempio. L’attenzione che hanno verso i poveri e i malati, il loro prendersi cura dei più piccoli e la loro instancabilità sono davvero qualità difficili da trovare, in qualunque paese, e dalle quali speriamo di essere un po’ contagiate anche noi!
Ad ogni modo non tutto è sempre rose e fiori.
Con la lingua malgascia non è tutto in discesa, tante espressioni sono per me ancora dei misteri (anche se dopo tanto allenamento finalmente riesco a fingere abbastanza bene di aver capito) però per fortuna nelle conversazioni di tutti i giorni un po’ riesco a farmi a capire, e alla fine è questo quello che conta no?
Inoltre certe linee di pensiero qui molto comuni faccio fatica a condividerle, e alcuni comportamenti sono ancora difficili da accettare, ma perché forse giudico sulla base di quello che vedo mentre spesso c’è qualcosa dietro che giustifica un certo modo di fare, ed è quello che spero di riuscire a trovare nei prossimi mesi.
E poi c’è quell’etichetta che troppo spesso mi sento attaccata in fronte dagli sguardi della gente e che mi fa tanto dispiacere: bianco = soldi. E la cosa che forse più mi fa arrabbiare è che non riesco a ribattere, perché è vero che noi in confronto siamo “ricchi”, e però io cosa posso farci? E allora provo a parlare con chi mi chiede soldi, chiedo da dove vengono, quanti figli o fratelli hanno, e loro mi rispondono, stupiti di vedere ogni tanto un bianco che prova a parlare in malgascio.

E così ecco qua un po’ gli aggiornamenti sulla nostra quotidianità,
per ora tanti saluti da Ampa e…. alla prossima!

Giulia

Ilaria in cucina

Buongiorno signora! Salama tompoko!

Sono passati ormai due mesi dal mio arrivo in Madagascar, e a me sembra passato così tanto tempo…

Sono arrivata circa nello stesso periodo dei campisti, e fin da subito ho avuto la fortuna di conoscere gran parte dei progetti e di realtà diverse, oltre alle Case di Carità. In questi primi mesi ho incontrato molte persone preziose, visitato diversi luoghi, ammirato innumerevoli paesaggi interrogandomi su ogni cosa. Essere a conoscenza di certe situazioni di difficoltà e di povertà, fa sentire sicuramente impotenti, ma dà la possibilità di aprire gli occhi e di trovare il proprio posto.

Ilaria con masera e altri in Casa di Carità

Attualmente vivo in Casa di Carità qui ad Ambositra, paese nell’altopiano molto affollato e molto colorato, dove studio la lingua. Il malgascio è senza dubbio una lingua difficile, strutture diverse e parole molto distanti dall’italiano! All’inizio quella della lingua per me è stata una delle difficoltà maggiori. Non poter comprendere la lingua di chi ti parla è tremendo, però allo stesso tempo è stato bello vedere come la comunicazione non sia fatta solo di parole, ma anche di gesti, sguardi che riescono a semplificarla. Di grande aiuto per me, sono stati gli ospiti della Casa, che non si aspettano grandi discorsi da me e mi fanno semplici domande. Basta condividere piccoli momenti con loro, rivolgere attenzioni, sorrisi ed esserci. Ad affiancare la difficoltà della lingua, vi era il timore di uscire da casa, del sentirsi chiamare almeno una decina di volte ‘Vazaha’. All’inizio per me era così ingiusto da farmi arrabbiare, poi ragionandoci non viene detto con cattiveria, ma semplicemente noi bianchi siamo oggettivamente diversi e si sa che il diverso è qualcosa di sconosciuto.

Insomma in questi primi mesi ho avuto un gran da fare. Ho conosciuto la realtà della Caritas insieme al Mompera Max, ho vissuto un mese a casa di Nicola, ho studiato, ho incontrato Frate Leonard tornato dall’Italia per le vacanze, sono stata con la Luigina e i bimbi, ho rivisto la Masera Florance che è qui in Congé della mia Casa di carità a Cavriago e ho passato alcuni giorni a Fiarantsoa in occasione dei primi voti dei Fratelli. Attualmente mi impegno ogni giorno in Casa di Carità perché c’è sempre bisogno, le Masere e gli ausiliari sono molto accoglienti con me facendomi sentire a casa. L’esperienza in casa per me sta avendo la massima importanza nel mio percorso, ne sono molto contenta. Ho capito ancora di più la sua importanza nella mia vita, ed è un tramite tra me e il Signore per conoscerlo meglio ogni giorno.

Tra un mese andrò ad Ampasimanjeva e li inizierà il mio progetto, non vedo l’ora. Credo di aver provato quanto sia faticoso ascoltare senza capire, aspettare, non farsi programmi perché tanto qualcosa verrà cambiato, e chiedere aiuto. Giorno per giorno ho imparato a vedere con occhi diversi la realtà di Ambositra e a trovare i suoi lati positivi, a mischiarmi con la gente. Credo però che la forza ti venga dall’alto che ogni giorno bisognerebbe ascoltare e cogliere quei segni che Lui ci manda. La cosa più importante è che non si è mai soli, c’è sempre qualcuno con te anche se non lo vedi, e questa è una grande certezza.
Un saluto a tutti, Veloma e Amin’ny Manaraka (arrivederci e alla prossima).

Ilaria

con i bambini di Anorambato, mani fangose e gioiose

Madagascar: le mani ed i gesti che fanno bene al cuore

“Mani, prendi queste mie mani, fanne vita fanne amore…”

 

 

In questi 25 giorni di campo missionario in Madagascar ne ho incontrate davvero tante di mani che hanno lasciato in me un segno.
Mani pronte a riabbracciare con gioia incontenibile un’amica che in questi mesi è stata luce.
Ha permesso di far nascere in me tante domande, tanti desideri e fra questi, anche quello di andare là a rincontrarla e incontrare.

Mani sapienti di Sasà, ospite della casa di carità di Tongarivo, che mi ha preso per mano e mi ha guidato a scoprire le bellezze nascoste di quell’oasi di pace, come ad esempio un piccolo camaleonte in un orto fatto con tanta cura.
Mani di Edmund, ospite invece della casa di carità di Ambositra, con gli occhi che lacrimavano e, sotto la luce del sole, luccicavano. Sono mani che mi hanno stretto con gioia e che hanno fatto sparire tutto il resto intorno: quelli che noi chiamiamo i nostri difetti, la mia ignoranza della lingua malgascia, le chiacchiere dei miei compagni e degli altri ospiti. In quel momento c’eravamo solo io e lui e le nostre anime che si incontravano in silenzio.

Mani sporche e segnate ma instancabili degli artigiani di Ravinala che ho incontrato lungo la strada. Grazie alla loro creatività lavorano materiali grezzi per dare vita a gioielli in alluminio, a piccole pochette di rafia, a statuette intagliate di legno, a macchinine in latta.
Mani volenterose dei volontari di RTM ad Antananarivo e a Manakara, che progettano e si impegnano con anima e corpo per lottare contro problemi sociali importanti come la lebbra.

Mani stanche, arrabbiate, tristi, rassegnate, ma anche resistenti degli uomini carcerati di Ambositra e degli ospiti del villaggio terapeutico di Ambokala, che si sono rianimate giocando insieme a noi a pallavolo e a calcio.
Mani calde e fangose di tutti i bambini che ho incontrato, che mi hanno schizzato con l’acqua della cascata di Anorombato, che hanno giocato con me alla Ludoteca Papillon, che mi hanno accompagnato a conoscere il villaggio di Ampasimanjeva.
Mani contente di piccolini che mi hanno imitato nei gesti dei bans al campo estivo alla ferme di Analabe, che hanno acchiappato forte i giochi portati nel cortile di Suor Luigina ad Ambositra, che sono così abituati ad essere autonomi da rifiutare il mio aiuto per spostarsi da una passerella all’altra ad Anatihazo.
Mani di bambine che hanno una cicatrice che assomiglia tanto alla mia o che si sono tenute forti al mio braccio mentre nella schiena avevano dietro una piccola sorellina e ancora l’altro pollice in bocca.
Mani di tutti i ragazzini che ci hanno salutato alla fine con gratitudine e senza lamentarsi, sapendo forse loro, fin dall’inizio, che tutto ha una fine?

Mani perseveranti di chi ha deciso di restare, di dedicare la sua vita a quel pezzetto di terra perché “è davvero tutto regno di Dio”.
Quindi eccole le mani ancora forti e tenaci di Don Pietro Ganapini, che mi hanno donato un libretto sul suo progetto della DIDEC, fatto stampare apposta per noi.
Ma anche mani umili, pazienti e materne di Suor Giacinta, di Suor Luigina e di tutte le altre masere che mi hanno accolto, che lavorano nell’ombra e sono così semplicemente madri e sorelle di tutti.
Mani laboriose dei monpera orionini di Anatihazo, che con la loro scuola professionale di falegnameria, fondata da Don Luciano Mariani, provano a dare speranza ai giovani che nascono in uno dei quartieri più poveri della capitale.
Mani sagge dei monpera e dei capi villaggio del gruppo degli Zafimaniry, che resistono nelle foreste e che provano a costruire qualcosa grazie alla solidarietà e alla provvidenza. Sono le loro mani grate, che ci hanno ringraziato così tanto per essere andati fino a là, in quel posto sperduto, solo per incontrarli.
Mani umili di Don Giovanni Ruozi, che hanno saputo indicare i pezzettini di quella chiesa, non solo fisica, di Manakara costruita con tanta fatica e passione.

Mani pronte ad accogliere, dei volontari, che mi hanno mostrato ancora con stupore i loro progetti e il punto in cui sono arrivati nella loro faticosa ricerca quotidiana.
Mani uniche dei miei compagni di viaggio, che hanno saputo tutte esserci, sostenere, accarezzare, coccolare, abbracciare, scherzare, condividere, sfiorare il cuore, per portare un po’ i pesi insieme.
Le loro mani a cui ho potuto affidarmi fiduciosa nei momenti di difficoltà e che mi hanno stretto tanto forte prima di lasciarmi alla fine andare.
Mani speranzose di tutti noi insieme che, durante le messe, nel momento della pace, si sono strette forti e si sono alzate in alto per poterle offrire tutte a Lui.

Ringrazio il Signore per avermi donato occhi e cuore per vedere il bello in ogni piccolo gesto di amore durante questo viaggio e per percepire la sua presenza dietro ad ognuna di queste mani.
E alla fine, ho capito che aveva ragione Suor Roberta della casa di carità di San Giuseppe: “Cercalo, non smettere mai di cercarlo, è faticoso, ma è l’unica cosa per cui vale la pena vivere!”.

Elisa Carpanoni

Il panorama di Ampasimanjeva

Ampasimanjeva: essere ospiti…con una parte del cuore rimasta là

Si è chiuso un piccolo ed importante capitolo di questo lungo percorso che a noi sembra‚ però, troppo corto.
Il 18 agosto abbiamo dovuto salutare Ampasimanjeva. Inutile dire che una parte del nostro cuore è rimasta là.
Nel viaggio per raggiungerla, percorrendo al buio quell’ora di strada sterrata con buche che sembravano voragini, pensavamo di essere arrivati alla fine del mondo.
Appena arrivati a destinazione, ci siamo seduti a tavola in fretta e furia “perché poi bisogna spegnere il generatore!”. Infatti, la corrente elettrica ad Ampasimanjeva non c’è. Per l’ospedale e le altre stanze antistanti dei dipendenti viene tenuta accesa attraverso un gruppo elettrogeno solo un’oretta o due al giorno dopo il tramonto per permettere alle persone di lavarsi e cucinare, poi viene spenta e risparmiata per eventuali urgenze in ospedale.
Ci siamo accorti che le cose al buio acquisivano un’altra fisionomia, gli altri sensi si espandevano e si sviluppavano maggiormente. Ci siamo ritrovati ad apprezzare quel fascio di luce della torcia prima di addormentarci, che offriva un po’ di senso di calore. A Manakara è stato strano riabituarsi alla luce elettrica, è come se la vista regnasse di nuovo sovrana in ogni situazione. Ci siamo chiesti: sarà forse per questo che noi diamo così importanza all’apparenza?

I bambini giocano a calcio nel campetto fangoso di Ampasimanjeva

I bambini giocano a calcio nel campetto fangoso di Ampasimanjeva

È stato emozionante sentire il profumo dell’aria pura, non inquinata, di aperta campagna, assaggiare i sapori dei cibi che le suore ci cucinavano con tanto amore, udire i rumori della natura mentre ci ritrovavamo alla sera in cerchio sotto alla veranda dei volontari per giocare a lupus, stringere le manine calde e un po’ fangose dei bambini che tutti contenti ci hanno accompagnato a fare il giro del villaggio, ascoltare le parole di preghiera, di confronto e di condivisione delle volontarie che hanno deciso di dedicare un anno della loro vita lì, soltanto per esserci.

Quello che si può notare ad Ampasimanjeva è il collegamento fondamentale che esiste fra tutti i progetti della missione presenti: le persone malate di tubercolosi non sono persone escluse, ma sono parte di una comunità. Giocano a calcio con i bambini della scuola e i loro figli frequentano insieme ad altri proprio quella scuola. Ci chiedevamo: tutto non parte forse dall’educazione scolastica?

La Ludoteca “Papillon“ è una scuola libera e gratuita non riconosciuta ufficialmente. Inizialmente, era nata per permettere ai figli dei malati di tubercolosi, che devono sottoporsi ad un trattamento di due mesi in ospedale, di avere continuità nella formazione. Successivamente, si è poi deciso di aprirla a tutti i bambini del villaggio che hanno più di tre anni e che non possono permettersi di andare a scuola.
Ci è sembrata un’apertura che significa vera accoglienza e giocando con tutti quei bambini si può percepire la loro gratitudine nel sentirsi accolti e nell’avere qui un punto di riferimento.

Le scuole statali e private sono tutte a pagamento e pochi genitori possono permettersi di mandarci i loro figli.
Il tasso di analfabetismo, ci riferiscono i volontari, è del 78%. Qui, oltre a Madame Beatrice che la gestisce, c’è Giulia, che con il suo sorriso accoglie con gioia ogni bambino.

Un bimbo con un cellulare ad AmpasimanjevaGiulia ci ha raccontato due episodi: una volta si era un po’ arrabbiata con un bambino che sembrava molto motivato, ma veniva poco a scuola. Allora, glielo aveva fatto presente e lui aveva risposto che non poteva esserci sempre non perché non volesse, ma perché doveva andare a far pascolare gli zebù.
L’altro episodio che ha condiviso riguarda il venerdì alla Ludoteca. Durante quella mattinata si guarda sempre insieme un film e molti bambini, che vengono a scuola proprio per imparare e sono molto motivati oppure che vengono da molto lontano a piedi o in lakana (canoa), non si presentano perché “mi sembra solo di perdere tempo”.

Ilaria con i bimbiPresto sarà il turno di Ilaria, con la quale abbiamo condiviso parte del nostro viaggio e che affidiamo con gioia al Signore.

 

 

 

 

L’altro progetto del CMD ad Ampasimanjeva che abbiamo avuto l’occasione di conoscere è l’ospedale.

L’esterno dell’ospedale di Ampasimanjeva con malati e parenti in attesa

È uno degli ospedali di riferimento del sud del Madagascar, in cui i pazienti hanno la possibilità di pagare le cure in base alla loro disponibilità economica e in ogni caso sono sempre garantite.
Chiara ci ha fatto fare un giro lungo ed approfondito di tutti gli spazi fisici ed emotivi presenti. Ci ha raccontato con passione alcune storie di malati che l’hanno colpita: storie di donne che muoiono ancora e spesso di parto, storie di presunte vittime di violenza, storie di persone con infezioni così grandi che ormai invadono tutto il corpo, storie di donne che tengono i loro figli appena nati con loro già sotto le coperte, storie di padri che muoiono e che lasciano una figlioletta che ha come unico punto di riferimento la scuola, storie di bambini che si presentano senza un arto, e tante tante altre. Sentiamo il peso di queste storie, la fatica di raccontarle e anche di accettarle.
Chiara ci ha spiegato anche che la gente ha paura di venire in ospedale perché gira voce che “in ospedale si muore“. Ci ha detto anche che questo pregiudizio è comprensibile perché spesso le persone arrivano in ospedale all’ultimo momento, all’ultimo stadio della malattia, quindi come ultima spiaggia prima di morire e quando ormai è troppo tardi.
Sarà forse che il centro della loro vita è la sopravvivenza quotidiana, quindi il lavoro e i bisogni primari? Sarà per questo che non c’è tempo e spazio per la riflessione, per pensare a cosa fare e per prendersi cura di sé e degli altri?
A questo proposito ci è stato riportato un detto malgascio: “fai tanti figli, perché si sa già che alcuni moriranno.”
Mentre eravamo tutti seduti di fronte all’ospedale abbiamo visto passare una persona deceduta in una barella fatta di legno e ci è subito apparso chiaro che la morte fa parte davvero della vita, ma è così tanto difficile da accettare e affidare la nostra vita e quella degli altri al Signore. Capiamo anche che le emozioni di fronte ad un evento così traumatico come la morte vengono espresse in modo differente in base ai modelli culturali di riferimento: qui, ad esempio, non va bene piangere e i bambini vengono sgridati se piangono.

Abbiamo dato un’occhiata veloce alle ‘cucine’, spazi predisposti per i familiari dei malati: nella stessa stanza questi preparano da mangiare e dormono su stuoie per terra. Ogni malato, infatti, si porta dietro tutta la famiglia e a turno ogni componente si prende cura della sua assistenza di base. Entrando in una stanza dell’area adulti, ci è stato fatto notare che qui le persone sono fortunate perché a tutti è garantito il materasso sul letto, cosa che negli altri ospedali non avviene e solo chi riesce a permetterselo lo noleggia, altrimenti utilizzano una stuoia sopra alla rete. Poi, siamo stati nell’area materno-infantile e nella sala parto, dove un gran numero di donne incinte e malate formavano una lunga fila tranquilla e paziente.

La sala operatoria dell’ospedale di Ampasimanjeva

Infine, dopo il dispensario dei medicinali e il laboratorio per le analisi del sangue, finalmente la sala operatoria, che è l’unico ambiente più o meno a norma secondo la nostra logica occidentale per quanto riguarda la sterilità.

È davvero difficile descrivere a parole le grandi differenze rispetto agli ospedali italiani e provare a trovare un senso a tutta questa sofferenza e al modo di gestirla qui, in Italia e ovunque.

Gran parte dei mezzi che sostengono tutto l’ospedale sono i fondi inviati dalla Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla, che derivano da donazioni, e l’amore e la cura dei volontari, delle suore malgasce, del signor Giorgio Predieri e dei pochi dipendenti, rigorosamente tutti malgasci, che ci lavorano quotidianamente. Fra questi, il Dottor Martin è davvero uno dei punti di riferimento principali, medico chirurgo ginecologo, formatosi prima ad Antananarivo e poi in Italia e dalla capitale trasferitosi qui con tutta la famiglia, anche lui in missione in questa piccola realtà. Chiara ci ha raccontato che lui gioca e allena nella squadra locale di basket.

Il dottor Martin, direttore dell’ospedale di Ampasimanjeva

Ci hanno colpito immensamente le sue parole: “giocare a basket è come lavorare in ospedale, se fai canestro, se riesci a guarire un malato o fare un’operazione che va poi a buon fine, fai centro e sei contento!”. Ci ha fatto un po’ commuovere tutti la sua pace interiore, il suo impegno, la sua sensibilità, il suo prendersi a cuore, il suo caricarsi delle responsabilità, la sua decisione di non andare in pensione per continuare ad operare: è davvero un esempio di grande umiltà.

Un’ altra attività di cui si occupano i volontari è quella con le persone malate di tubercolosi, che vivono insieme ai loro familiari in strutture separate ma vicine all’ospedale, anche se non sono più contagiosi una volta iniziata la terapia.

Giulia e Giorgia ora si alternano tutte le mattine per fare un piccolo momento con loro, dando loro le medicine e provando loro la febbre per avere un monitoraggio costante dell’andamento della loro guarigione. Osservando le loro cartelle ci hanno colpito i dati riguardo al loro peso e l’età: 25-35 chili e alcuni anche molti giovani. Sono una piccola e accogliente comunità, ridono e scherzano fra loro e ci hanno fatto sentire tanto accolti. C’è un ‘capo’ che coordina un po’ il tutto ed è un punto di riferimento per tutti i questi malati. Quello attuale è un ragazzo giovane con un sorriso smagliante e con la battuta sempre pronta.

La sala di attesa dell'opsedale

Ci viene quindi ancora da chiederci quanto e quale posto occupa la malattia nella mente e nel cuore delle persone che abbiamo incontrato.

Lasciamo per ultima una frase che un anziano signore in un banchetto ad Ampasimanjeva ha detto a Giulia, mentre ci vedeva passare nel villaggio, e che lei, commossa, ci ha tradotto ringraziando il Signore: “sono arrivati degli ospiti, che bello!”. Ed è stato proprio un grande insegnamento di ospitalità e di accoglienza: per una volta al posto della parola ‘vazaha’ (stranieri), c’è stata donata la parola ‘ospiti’.

I campisti ampasimanjevi 2018

Bambini, bambini e ancora bambini

Bambini, bambini e ancora bambini, bambini ovunque andiamo.
Qui la vita inizia in ogni angolo.

 

 

 

 

 

 

Bambini che ci sciolgono con i loro sorrisi, un po’ sdentati, ma tanto lucenti.
Bambini che, come ci racconta Giulia, fin da piccoli ad Ampasimanjeva sono spesso chiamati a tener dietro agli zebù, ad avere il ruolo di piccoli pastori perdendo così la possibilità di frequentare la scuola, di viversi l’infanzia.

 

 

 

Bambini curiosi che, appena ci vedono, con un po’ di vergogna tentennano fra lo stare e lo scappare, ma quando decidono di rimanere, sentiamo la loro accoglienza vera e sincera, come un immenso abbraccio anche senza sfiorarci.

Una bimba con il fratellino sulla schienaBambini che portano sacchi pesanti sulla loro testolina, che tengono sulla schiena il fratellino o la sorellina, due cuori vicini, che si toccano, uno che impara presto cosa significhi essere responsabile e l’altro che si deve affidare.
Bambini che ci seguono ovunque andiamo, che corrono come forsennati dietro al nostro pulmino, pur di non perdersi il saluto di un “vazaha” (straniero).

 

 

 

 

 

Bambini colorati nel loro vestito migliore per l’occasione della messa, che sanno a memoria le canzoni di chiesa perché sono le uniche che possono ascoltare.
Bambini silenziosi nel nostro momento di condivisione con Don Simone ad Anorombato, il giorno prima di ferragosto, che ci osservano prima con occhi stupiti poi ci scrutano uno ad uno per comprendere cosa stia succedendo, condividendo con noi semplicemente standoci accanto.

Bambini che non si sa neanche se nasceranno, che potrebbero morire dopo i primi battiti, che hanno un pancione gonfio come un palloncino, pieni zuppi di fango, con una sola ciabatta, quasi tutti con i piedi scalzi, con le treccine o con i codini, che si lavano nel fiume.

Bambini che si divertono come pazzi a fare i bans con Chiara, che adorano le foto, che non vedono l’ora di vedere finalmente la loro espressione riflessa come su uno specchio, che ridono come matti appena mostriamo loro la foto appena scattata, che vorrebbero essere riconosciuti, sognati e ricordati.
Bambini che, ai vari mercatini che incontriamo, rimangono lì tutto il giorno con i genitori, ad aspettare, a sgranocchiare, a osservare, a succhiare da un seno offerto gentilmente da mamme stanche e segnate.

 

Bambini che calciano un pallone composto da stracci, che rincorrono Roberta e Martina, che assaltano Damiano, che farebbero qualunque gioco insieme a noi.

Stasera, prima di dormire, sotto questo cielo zuppo di stelle nell’emisfero opposto, pensiamo solamente che tutti noi siamo stati bambini e che è proprio un dono grande poter intrecciare la nostra vita con quella di questi bambini.

I campisti malgasci – Ampasimanjeva 18/08/2018