Albania, dalla barbarie alla fraternità – Intervista all’Arcivescovo dopo il viaggio nella missione diocesana

 

Era il primo viaggio missionario dell’Arcivescovo Giacomo Morandi: dal 2 al 6 settembre, accompagnato dai seminaristi e da numerosi delegati della nostra Diocesi, il pastore ha visitato la missione in Albania. Una presenza che affonda le radici storiche nella fine del lungo regime di Enver Hoxha, nel 1992: di fronte alle drammatiche immagini di povertà che venivano dall’altra parte dell’Adriatico alcune suore della Casa della Carità di Villa Cella, don Romano Zanni e diversi volontari iniziarono a mobilitarsi per mettere in campo interventi prima saltuari e poi più stabili; in quegli anni si ricorda il ferimento di don Luigi Guglielmi, direttore della Caritas diocesana e l’invio di una delegazione della nostra Chiesa che avrebbe poi gettato le basi del Gruppo Albania, fino al 2002 quando don Carlo Fantini, stabilendosi a Gomsiqe, accolse il grido della gente del luogo, già manifestato al vescovo Caprioli: “Venite a parlarci di Dio!”. Rimandiamo alle tre pagine pubblicate nell’edizione de La Libertà del 14 settembre per la cronaca del viaggio di quest’anno, che ora ripercorriamo con il vescovo Giacomo in questa intervista.

Monsignor Morandi, con quale spirito ha vissuto la sua prima visita a una missione diocesana?

Il viaggio è stato caratterizzato dal desiderio e dalla curiosità di vedere come la Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla abbia iniziato l’esperienza missionaria quasi trent’anni fa, investendo in questa direzione con tanta generosità e intraprendenza. Un’attività – questo è un aspetto piuttosto originale – costruita da preti e laici insieme.

Che accoglienza ha trovato e che impressione ha avuto del popolo di Dio che vive in Albania?

L’accoglienza è stata veramente eccezionale, sotto tanti profili, da parte sia del vescovo Simon che della comunità. L’impressione più evidente che si riceve è quella di un popolo che porta impressi i segni di una grande prova e sofferenza, quindi una forte testimonianza di fedeltà che diventa un dono offerto anche alla nostra Chiesa di Reggio Emilia-Guastalla. La preoccupazione che ho colto è legata allo spopolamento del Paese. La speranza – e qualche segno si vede – è che l’Albania sappia ritrovare forze giovani, necessarie per procedere nel cammino e consolidare una ripresa anche sociale ed economica. La povertà è ancora tanta. Mi diceva un ragazzo titolare di un’impresa di falegnameria che di dieci operai a lavorare nell’azienda sono rimasti in due, perché i giovani, specialmente i maschi, se ne vanno appena compiono 18 anni. Il sindaco, invece, è uno dei più grandi produttori di acciughe e alici del Paese: mi ha detto di aver imparato il mestiere a Cefalù, negli anni trascorsi da profugo in Italia.

Ha incontrato le “tracce” dei martiri albanesi. Quale testimonianza viene al nostro Paese in via di scristianizzazione?

Quando si visitano i luoghi del martirio, si tocca con mano la fede di tanti credenti che hanno nascosto sottoterra o dentro i muri delle case immagini e oggetti sacri perché non fossero distrutti durante la dittatura. Il Museo diocesano di Scutari offre in questo senso una testimonianza impressionante. Il vescovo di Sapa ha voluto regalarmi una croce che per quarant’anni è stata sepolta (si veda la foto sopra): l’ho portata in vescovado a Reggio anche come un monito e un pungolo per il sottoscritto. Sì, credo che questo ci dia la cifra di una Chiesa che ha saputo essere creativa e anche determinata nel difendere la propria fede: dobbiamo trarne la forza di una testimonianza coraggiosa. E c’è una sorta di paradosso che mi ha colpito…

Quale?

Che i magazzini dove furono torturati tanti cristiani e dai quali passarono i trentotto martiri albanesi siano abitati dalle Clarisse. È significativo che un luogo di immane sofferenza sia ora un luogo d’intercessione e di fraternità. Anche così il Signore lenisce le nostre sofferenze: là dove si sono sperimentate la follia e la barbarie dell’uomo è nato un cenacolo di preghiera per tanti fratelli e sorelle… mi pare sia un percorso impressionante.

Dall’incontro con la Casa della Carità quale dono ha ricevuto? Su quali aspetti ha puntato nella sua predicazione?

Come monsignor Kulli ha detto esplicitamente e io ho ribadito, la Casa della Carità è una perla preziosa, anche in considerazione della sua vicinanza alla casa in cui abita il vescovo. Ciò diventa già un’opera di evangelizzazione: in un contesto sociale in cui spesso persone disabili e ammalate sono tenute da parte, il fatto che il pastore vada di frequente a trovare gli ospiti della Casa della Carità diventa un segno importante della sua paternità e anche un modo nuovo di impostare il servizio ai fratelli e alle sorelle più poveri. Anche nella mia predicazione ho voluto sottolineare soprattutto questo significato del decennale della Casa: l’indicazione – non solo alla Chiesa in Albania ma alla Chiesa di ogni latitudine e longitudine – che il servizio agli ultimi dev’essere percepito come un tesoro prezioso, sulla scia di santa Teresa di Calcutta e di don Mario Prandi.

Nell’ottica dello scambio di doni, quale arricchimento possiamo portare in Albania con la missione?

Il vescovo Simon desidera ardentemente che lo scambio missionario possa continuare e credo questo sia un impegno che ci possiamo assumere. Anche nell’estate scorsa, in cui dopo le restrizioni per il Covid sono ripresi i viaggi, sono stati numerosi i giovani volontari che hanno scelto di vivere i campi di conoscenza promossi dal Centro Missionario, di dare un aiuto alle famiglie più bisognose e di preparare il decennale della Casa della Carità di Vau-Dejës. La zona di Gomsiqe, vicino al Kosovo, è montuosa e si è ormai spopolata; durante il nostro viaggio siamo andati un giorno a celebrarvi la Messa, a cui hanno partecipato poche decine di persone. Credo che oggi sia difficile inviarvi stabilmente un sacerdote, ma che sia tempo di ipotizzare nuove collaborazioni. È un momento un po’ faticoso. L’orientamento è quello di reimpostare il cammino missionario confermando una presenza sulle cui modalità il discorso resta aperto.

Ha già pensato a quale sarà il prossimo viaggio missionario?

Le mete possono essere l’Amazzonia o il Madagascar, che sono le altre due grandi presenze missionarie della nostra Chiesa. Valutiamo in questi mesi quale sarà la più plausibile per il viaggio che farò nel 2023.

Edoardo Tincani

Da La Libertà numero 33 del 5 ottobre 2022