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Casa non sono i luoghi ma le persone

Ciao a tutti amici!
Eh si il momento è quasi arrivato, tornare a casa..
Rimettere in ordine le idee e le cose e non ripartire, ma continuare questo percorso che ho imparato a percorrere.

In Madagascar ho dovuto riniziare da zero, in casa, con la comunità, entrare in una cultura diversa, farmi degli amici, conoscere luoghi e le persone.
Ho imparato anche a stare da sola, perché nella vita ci vuole anche quello! Imparare a cavarsela da sola.. pian piano mi sono sentita capita, e sostenuta… Forse anche un po’ protetta.
Ed ho visto che ci sono innumerevoli cose che so fare anche senza l’aiuto di nessuno. Cosa che prima non avrei mai immaginato!
È molto difficile per me lasciare questo posto, sento davvero di dividere una parte di me stessa.. Ma so anche che non significa abbandonare tutto, ma semplicemente continuare un percorso di vita, so che si può essere in collegamento anche da lontani., Casa non sono i luoghi ma le persone.
Anche se non ha un tetto e quattro pareti, il pavimento, letti confortevoli,anche se non è dove sei cresciuto, anche se è povera dentro, anche se non è dove vivono i tuoi famigliari e i tuoi amici, perché casa può essere tante cose ma è sempre una sensazione.
Tutto può essere casa quando si sceglie di viverla, anche le persone possono diventare una casa quando decidiamo di farle vivere dentro di noi. Casa vuol dire essere liberi di sentirsi al sicuro. E mi sento in dovere di ringraziare il Signore per il bellissimo dono che mi è stato regalato, per aver messo sul mio cammino questi volti, questi luoghi e questo tempo.
Ad Ampasimanjeva lascio la metà del mio cuore, consapevole che niente finisce.

Grazie a coloro che hanno intrecciato la mia vita, al piccolo  Randria per avermi permesso di accompagnarlo durante la sua malattia, ai malati di Tbc( tubercolosi) per avermi resa partecipe della loro sofferenza e per aver gioito insieme, ai bimbi del centro papillon per avermi spronata a ricercare  dentro di me domande e  risposte, ai 16 bambini iscritti nella  scuola privata per avermi insegnato a guardare le cose con nuovi occhi, a Joel per aver creato un legame così forte, agli amici del basket per la spensieratezza condivisa, alle Masere per avermi sempre sostenuta e ascoltata in qualsiasi momento, e alla comunità con cui ho condiviso il mio periodo di missione.
Ci sarebbero tante altre persone da ringraziare ma lascio questo compito a qualcuno che vede  molto più lontano.
Sarà  molto difficile lasciare tutto questo, ma sono sicura che la vita riserverà sempre altre occasioni.

Spero di tornare a casa e di mettere in pratica ciò che è diventato chiaro nella mia testa e nel mio cuore.
Madraphiona 🤩🎉
Ilaria

 

 

 

 

 

 

 

 

Racconti malgasci

Il 24 novembre è venuto a celebrare con noi don Simone Franceschini, membro della comunità sacerdotale Familiaris Consortio in missione in Madagascar da due anni. Ne abbiamo perciò approfittato per fargli qualche domanda e conoscerlo meglio.

  1. Quando hai deciso di diventare prete e perché? Avevi mai pensato di diventare missionario?

La mia vocazione e il mio desiderio per il sacerdozio si sono accesi nell’infanzia, nell’adolescenza e nella giovinezza, quindi a più riprese. Nel periodo dell’adolescenza il desiderio della vocazione era strettamente legato a quello della missione, grazie ai racconti di qualche missionario tra i frati che conoscevo, che frequentavano casa nostra o erano amici di famiglia. Quindi in realtà non è stata proprio una novità nel mio cammino vocazionale, ma aveva una radice in quel periodo.

  1. Dopo qualche anno di missione, puoi dire che sia come te la aspettavi o è qualcosa di diverso?

Immaginavo che ci fosse una certa distanza tra l’umanità malgascia, l’umanità africana – ma malgascio è diverso da africano, malgascio è più giusto – e noi; cosa che è vera, tuttavia ho riscontrato meno distanza rispetto a quanto credevo all’inizio. Quando vedo i bambini, vedo che in fondo non sono diversi dai nostri bambini. Quando vedo i giovani e vedo come si atteggiano con gli altri giovani (adesso arrivano e si stanno diffondendo anche i cellulari), mi accorgo che i loro atteggiamenti sono veramente simili a quelli dei nostri ragazzi. Quindi, in definitiva, posso proprio dire che è tutto un altro mondo, ma che c’è davvero qualche cosa che accomuna l’uomo di ogni latitudine.

  1. Qual è la cosa che ti colpisce di più del Madagascar?

Rimanendo sul piano dell’umanità, sono molto colpito da una cosa, sia da un punto di vista positivo che negativo, ovvero dalla capacità di sopportazione dei malgasci. Capacità di sopportazione della loro situazione, di vivere, di resistere in certe condizioni davvero dure, estreme e difficili ma, dall’altra parte, in senso negativo, come un’altra faccia della medaglia, la loro incapacità di cambiare le cose, il loro accettarle comunque, non però nel senso di un’accettazione positiva.

  1. Se dovessi fare un confronto tra l’esperienza di fede qui e in Madagascar, cosa sottolineeresti?

Le fede in Madagascar, rispetto alla fede qui in Italia, è più giovane, meno radicata, a confronto con la nostra di antica tradizione. Al tempo stesso l’esperienza di fede in Madagascar è molto gioiosa e c’è un grande senso religioso in tutto il popolo, mentre da noi c’è chi crede, ma anche chi non crede o chi vive come se Dio non esistesse affatto. Il senso religioso in Madagascar è molto profondo.

  1. Qual è stato l’insegnamento più grande che hai ricevuto dall’esperienza in Madagascar?

Riporto un episodio perché può essere significativo per capire quello che è il popolo malgascio, anche se è semplicemente un episodio concreto.

Nei primi mesi dopo il nostro arrivo a Manakara abitavamo distanti dalla parrocchia, in una fattoria che è di proprietà della nostra diocesi, gestita e guidata da un volontario italiano, Luciano Lanzoni (era il posto dove aveva abitato già don Giovanni prima di noi). Per arrivare qui si fa un pezzo di strada sterrata in mezzo alla foresta. C’è un ponte basso in cemento che passa sopra a un rigagnolo, a un piccolo fiumiciattolo dove a volte ci fanno anche il bagno. Quando piove molto il ponte può venire sommerso dall’acqua.

Un giorno, in cui era veramente piovuto molto, noi ci eravamo recati in parrocchia e siamo tornati alla fattoria per dormire. Quando siamo arrivati, l’acqua sopra il ponte era molto alta, circa un metro, e non potevamo passare con la macchina: l’acqua ti arrivava alla vita. Quindi abbiamo lasciato la macchina dall’altra parte e ci siamo avvicinati per attraversarlo a guado. Prima è andato don Luca, che è più ‘piazzato’ di me e poi sono partito anch’io. Sull’altra sponda c’erano alcuni malgasci che abitano vicino a casa nostra e che ci stavano guardando; una signora ha preso un bastone lungo, è venuta in mezzo all’acqua per allungarci questo bastone … ci è venuta a prendere, in pratica! Così, dato che l’acqua era torbida e non si vedeva il fondo, seguendo i suoi passi e tenendoci stretti al bastone, non abbiamo corso il rischio di essere travolti dalla corrente, sapendo dove mettere i piedi, nonostante non si vedesse il ponte del tutto sommerso. Questo è stato davvero un grande gesto di aiuto, di carità, perché lei per entrare si è dovuta bagnare tutta, fino a oltre la vita. Noi ritornavamo a casa nostra, non avevamo problemi ad avere vestiti asciutti, ma lei, non lo so: abitava in una capanna nei paraggi e non so se fosse così semplice per lei avere vestiti di ricambio o un posto dentro casa dove poter asciugare quelli bagnati. Questo è un gesto che ho apprezzato davvero tanto e che dice molto dell’accoglienza dei malgasci nei nostri confronti.

  1. … e la delusione più grande che hai avuto?

In realtà è una cosa che fa sorridere, anche se subito ci sono rimasto un po’ male. Tra le varie case dei volontari ce n’è una nella città di Ambustra, sulle montagne, e qui ci vive un custode e, siccome spesso passiamo di lì, lo conosciamo bene, anche perché avevamo abitato lì all’inizio della nostra permanenza. Qui c’è un pezzo di terra che lui coltiva, terra per le esigenze nostre, così che una volta gli avevo fatto avere dei semi di zucca che mi aveva mandato mio fratello dall’Italia: zucca violino e zucca cappello di prete, entrambi i tipi, che gli ho dato da seminare. Quando è stata l’ora del raccolto, la zucca che mi ha consegnato, e che gli ho visto tagliare dalla pianta, era una zucca di tutt’altro tipo, di quelle che crescono a migliaia in Madagascar, una zucca tipicamente malgascia. Lui, però, sosteneva che fosse la zucca nata dai semi delle buste che gli avevo dato io e questo mi ha fatto un po’ sorridere, e un po’ mi ha deluso. Non ho indagato su cosa fosse successo o su come mai quei semi si fossero misteriosamente trasformati in una zucca d’altro tipo. A distanza di mesi ci rido veramente sopra, non è così importante, però anche questo dice un po’ della onestà non sempre così ‘precisa’ dei malgasci.

  1.  Raccontaci un episodio, che ti è rimasto impresso, di cui sei stato testimone o protagonista in Madagascar.

Questo è stato un episodio che mi ha dato molta gioia il giorno in cui è capitato. In parrocchia da noi c’è una signora cieca che ha tre bambini e vive con la madre. Fin dalla sua infanzia aveva problemi di vista, ma poi è diventata totalmente cieca in seguito ai colpi, alle botte ricevute dal suo uomo. Durante la sua terza gravidanza, finalmente quest’uomo è stato denunciato e non si è più rivisto, se non sbaglio. È comunque una signora sempre molto gioiosa, che non si lamenta; chiede, perché ha effettivamente bisogno, ma è sempre piuttosto allegra. Mi capita di scherzare con lei quando la incontro accompagnata per mano dai suoi due bambini più grandicelli, la bimba di quattro anni e quello più grande di circa sette o otto anni. Be’, un giorno le ho chiesto: “Juliettine – così si chiama – secondo te io come sono?”, pensando che mi avrebbe dato una descrizione fisica del mio aspetto, come se lo immaginava, perché ero curioso di saperlo. E lei mi ha risposto: “Secondo me, tu sei una persona felice.” Ecco, è stata una cosa che mi ha rallegrato molto in quel giorno, e soprattutto mi ha aiutato a prendere coscienza della reale felicità e gioia di cui godo e che il Signore mi ha donato.

  1. Cosa possiamo fare per partecipare da qui alla vostra missione?

Secondo me la cosa più bella che potete fare è pregare per sostenerci: punto primo.

Punto secondo: la vostra testimonianza di vita cristiana. Noi come missionari annunceremo il Vangelo con forza se sappiamo che il Vangelo ha cambiato e rende bella la vita delle persone. Se possiamo vedere che effettivamente il Vangelo rende bella la vita delle persone, quando siamo chiamati ad annunciarlo, lo facciamo con la consapevolezza che è una cosa che cambia la vita degli uomini. E questo ci fa trovare la forza di non smettere. Se invece vedessimo che qui tra di voi il Vangelo non ha modificato la vostra vita, è insignificante, allora anche noi perdiamo la forza nell’annunciarlo.

Poi, terza cosa: ‘per partecipare da qui….’ però magari ogni tanto sarebbe bello che veniste anche là a vedere, a conoscere, a condividere! Perché credo che non si torni a casa indifferenti.

Don Simone Franceschini 

L’articolo qui sopra è ripreso dal giornalino dell’unità pastorale Giovanni Paolo II

Su ali d’aquila

Lo scorso ottobre il centro missionario diocesano mi ha chiesto di andare in Albania per celebrare le Sante Messe per il ponte di Ognissanti. Solo due giorni prima della partenza, ho chiesto a Mattia Capotorto se volesse venire con me e lui mi ha risposto tempestivamente di sì (gliene sono molto grato!). Abbiamo trascorso in Albania quattro giorni intensi. Non nel senso che anche lì si vive la stessa frenesia che abbiamo qui in Italia, piuttosto sono stati giorni pieni di fede. Infatti l’Albania ha vissuto un lungo periodo di dittatura comunista, che ha fatto di tutto, affinché lo stato albanese divenisse ateo. Abbiamo perciò avuto la grazia di incontrare due tipi di testimoni: i primi sono i martiri uccisi a causa della loro fede (38 sono stati beatificati da papa Francesco lo scorso anno, ma ce ne sono molti altri che non sono ancora riconosciuti); i secondi sono coloro che hanno vissuto il dramma della persecuzione e che non hanno perso la fede.

A Scutari abbiamo visitato il carcere della città (ora trasformato convento di clausura delle Clarisse), dove abbiamo conosciuto tutti i martiri, ma soprattutto la beata Maria Tuci, che è sepolta nella chiesa delle Stimmatine, non lontano dalla cattedrale. Molti dei martiri beatificati sono stati gettati nei fiumi, per farli trasportare dalla corrente e impedire ai parenti di onorare i loro defunti. Di Maria, invece, abbiamo il corpo, perché dopo essere stata torturata duramente (fu rinchiusa nuda in un sacco assieme ad un gatto inferocito, che la graffiò e morsicò fino a renderla irriconoscibile), si ammalò di tubercolosi e fu trasferita in ospedale, ove morì all’età di 22 anni. Tra le amiche che non la riconobbero tanto era sfigurata, c’era anche suor Maria, ormai di 90 anni, che fa parte di quei testimoni ai quali il Signore ha chiesto di perseverare nella persecuzione. Ce l’ha presentata Mons. Simon, il vescovo della diocesi in cui siamo in missione, perché è la suora che lo ha battezzato. Sì, proprio così. Ci raccontava che durante il regime comunista non solo era proibito indossare segni religiosi, ma anche pregare in privato. Perciò era vietato compiere qualsiasi rito o sacramento. I sacerdoti erano stati tutti incarcerati o uccisi e la “zia” (così chiamavano suor Maria i compaesani, per non far capire che si trattasse di una religiosa) continuò a battezzare di nascosto tutti i bambini che andavano da lei. In particolar modo ci ha raccontato di quando incontrò una mamma di due gemelli, che le chiese di battezzare i figli in segreto, perché il marito era membro attivo del partito comunista. Trovandosi in mezzo al bosco e non avendo nulla con sé, suor Maria si tolse una scarpa e la usò come scodella per prendere dell’acqua da un canale e battezzare i due bambini. Così mantenne viva la fede!

Sono grato al Signore di questo viaggio, perché posso dire di aver vissuto quattro giorni pieni di celebrazioni, amicizia e fede. Celebrazioni, perché il 2 novembre è molto sentito anche in Albania. Amicizia, perché assieme ai volontari, alle suore e agli ospiti della Casa della Carità abbiamo vissuto un bel clima familiare. Fede, perché anche se non abbiamo visto le aquile volare alte nei cieli, gli albanesi ci hanno presi sulle loro “ali” per mostrarci, che, anche nella persecuzione più difficile, Cristo vince!

 

Don Emanuele Sica

Um bom dia e boa semana

Qui stiamo andando bene, con calma incontrando e iniziando a conoscere persone che collaborano nella pastorale e che hanno servizi nelle comunità. Le celebrazioni nelle comunità aiutano l’incontro.

Gabriele Carlotti dall’alba di sabato è in viaggio con frei Gino risalendo il fiume Içá per visitare le comunità che vivono sulle sponde di questo fiume.
La maggior parte della parrocchia, come estensione, è lungo i 340 km di questo fiume, fino al confine con la Colombia dove il fiume continua cambiando nome.
Gabriele Burani e anch’io cechiamo di conoscere le comunità della periferia della città oltre che del centro.
Ci aiuta e ci accompagna frei Assilvio, attuale parroco di S. Antônio do Içá; è importante questo passaggio di consegne; ci vorrà molta pazienza nel cammino.

Un saluto al CMD, a te e famiglia.
Um abraço.

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Carissimi il viaggio in terra amazzonica continua. 
La scorsa settimana c’è stata l’Assemblea Diocesana; quattro giorni di incontro di laici (rappresentanti delle 8 parrocchie della Diocesi), religiose e religiosi, frati e preti insieme al Vescovo per tracciare le linee pastorali della Diocesi per i prossimi 4 anni; un gruppo di circa 100 persone.
I riferimenti principali: la realtà, le linee direttrici indicate dalla Conferenza Episcopale Brasiliana, le indicazioni del Sinodo dell’Amazzonia (anche se il documento finale del Papa non è ancora uscito). Il metodo: vedere, giudicare, agire.
Si alternano momenti di preghiera ( a turno ogni parrocchia prepara e guida la preghiera), a lavori di gruppo, a momenti assembleari.
La struttura che ci ospita è della Diocesi: semplice, essenziale. Sobrio e essenziale il cibo; self-service, tutto in unico piatto, acqua, succo di frutta e cafesinho; ognuno lava il proprio piatto e le posate, alleggerendo il lavoro delle cuoche.
L’ultimo giorno è dedicato alle conclusioni operative; il vescovo Adolfo di insiste sulla importanza di scelte condivise alle quali ognuno deve poi dare priorità.

Sabato mattino alle sei ci accompagnano al porto di Tabatinga. Il vescovo Adolfo è già là; ci aiuta per l’imbarco e si parte per la ‘nuova’ parrocchia di Santo Antonio do Içá, affidata ai Reggiani. Sono otto ore ca. di ‘lancha’ la barca più veloce fra i mezzi pubblici di trasporto: trasporta 100 persone ca. e viaggia alla velocità di 28-30 nodi l’ora; fa la linea Tabatinga-Manaus, 36 ore di viaggio! Noi con otto ce la caviamo! Otto ore di acqua in questo immenso fiume color sabbia scura e di foresta sulle sponde. Sosta in Benjamin Constant, S. Paolo de Olivença, Amaturá, porti di cittadine, sedi di comuni e di parrocchie.
Santo Antônio do Içá è la nostra meta: siamo arrivati. Graças à Deus! In pochi minuti siamo alla ‘casa paroquial’; ci accolgono i frati cappuccini: frei Assilvio, parroco, originario di questa terra, frei Gino, perugino, da quasi 50 anni in Amazzonia e frei Vito di Manaus, novizio.
Ci aiuteranno a conoscere almeno un po’ la realtà.

Un saluto carissimo a tutti e l’augurio di un buon s. Prospero. Con affetto
don Fortunato

Siamo agli sgoccioli…

Ormai siamo alla fine dei 5 mesi qui.
Abbiamo finito un periodo in cui eravamo divise, cioè che io, Marta, ho fatto due settimane ad Uttan e nel mentre la Silvia le passava a Versova e dopo abbiamo cambiato, io sono andata a Versova e la Silvia è andata ad Uttan.

È stato utile, ma molto difficile, essere divise perché ci ha aiutato ad essere più forti e responsabili sulle scelte che facciamo tutti i giorni.
Inoltre siamo riuscite ad avere più confronto con le suore anche se è molto difficile per la lingua e per il modo di pensare.

In questi mesi ho riflettuto sulla mia vita e su quello che vorrei fare in futuro.
Per questo ringrazio chi ha permesso di farmi fare questa esperienza perché mi ha fatto cambiare alcuni aspetti della vita.
Per esempio essere più sicura di me stessa e di fidarmi delle persone che ho di fianco perché loro, in un qualche modo, mi aiutano a crescere ed essere più responsabile per me e per chi si fida e affida a me.

Non vediamo l’ora di arrivare a casa per raccontare questa nostra esperienza agli altri.

Marta e Silvia