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“Mani, prendi queste mie mani, fanne vita fanne amore…”
In questi 25 giorni di campo missionario in Madagascar ne ho incontrate davvero tante di mani che hanno lasciato in me un segno.
Mani pronte a riabbracciare con gioia incontenibile un’amica che in questi mesi è stata luce.
Ha permesso di far nascere in me tante domande, tanti desideri e fra questi, anche quello di andare là a rincontrarla e incontrare.
Mani sapienti di Sasà, ospite della casa di carità di Tongarivo, che mi ha preso per mano e mi ha guidato a scoprire le bellezze nascoste di quell’oasi di pace, come ad esempio un piccolo camaleonte in un orto fatto con tanta cura.
Mani di Edmund, ospite invece della casa di carità di Ambositra, con gli occhi che lacrimavano e, sotto la luce del sole, luccicavano. Sono mani che mi hanno stretto con gioia e che hanno fatto sparire tutto il resto intorno: quelli che noi chiamiamo i nostri difetti, la mia ignoranza della lingua malgascia, le chiacchiere dei miei compagni e degli altri ospiti. In quel momento c’eravamo solo io e lui e le nostre anime che si incontravano in silenzio.
Mani sporche e segnate ma instancabili degli artigiani di Ravinala che ho incontrato lungo la strada. Grazie alla loro creatività lavorano materiali grezzi per dare vita a gioielli in alluminio, a piccole pochette di rafia, a statuette intagliate di legno, a macchinine in latta.
Mani volenterose dei volontari di RTM ad Antananarivo e a Manakara, che progettano e si impegnano con anima e corpo per lottare contro problemi sociali importanti come la lebbra.
Mani stanche, arrabbiate, tristi, rassegnate, ma anche resistenti degli uomini carcerati di Ambositra e degli ospiti del villaggio terapeutico di Ambokala, che si sono rianimate giocando insieme a noi a pallavolo e a calcio.
Mani calde e fangose di tutti i bambini che ho incontrato, che mi hanno schizzato con l’acqua della cascata di Anorombato, che hanno giocato con me alla Ludoteca Papillon, che mi hanno accompagnato a conoscere il villaggio di Ampasimanjeva.
Mani contente di piccolini che mi hanno imitato nei gesti dei bans al campo estivo alla ferme di Analabe, che hanno acchiappato forte i giochi portati nel cortile di Suor Luigina ad Ambositra, che sono così abituati ad essere autonomi da rifiutare il mio aiuto per spostarsi da una passerella all’altra ad Anatihazo.
Mani di bambine che hanno una cicatrice che assomiglia tanto alla mia o che si sono tenute forti al mio braccio mentre nella schiena avevano dietro una piccola sorellina e ancora l’altro pollice in bocca.
Mani di tutti i ragazzini che ci hanno salutato alla fine con gratitudine e senza lamentarsi, sapendo forse loro, fin dall’inizio, che tutto ha una fine?
Mani perseveranti di chi ha deciso di restare, di dedicare la sua vita a quel pezzetto di terra perché “è davvero tutto regno di Dio”.
Quindi eccole le mani ancora forti e tenaci di Don Pietro Ganapini, che mi hanno donato un libretto sul suo progetto della DIDEC, fatto stampare apposta per noi.
Ma anche mani umili, pazienti e materne di Suor Giacinta, di Suor Luigina e di tutte le altre masere che mi hanno accolto, che lavorano nell’ombra e sono così semplicemente madri e sorelle di tutti.
Mani laboriose dei monpera orionini di Anatihazo, che con la loro scuola professionale di falegnameria, fondata da Don Luciano Mariani, provano a dare speranza ai giovani che nascono in uno dei quartieri più poveri della capitale.
Mani sagge dei monpera e dei capi villaggio del gruppo degli Zafimaniry, che resistono nelle foreste e che provano a costruire qualcosa grazie alla solidarietà e alla provvidenza. Sono le loro mani grate, che ci hanno ringraziato così tanto per essere andati fino a là, in quel posto sperduto, solo per incontrarli.
Mani umili di Don Giovanni Ruozi, che hanno saputo indicare i pezzettini di quella chiesa, non solo fisica, di Manakara costruita con tanta fatica e passione.
Mani pronte ad accogliere, dei volontari, che mi hanno mostrato ancora con stupore i loro progetti e il punto in cui sono arrivati nella loro faticosa ricerca quotidiana.
Mani uniche dei miei compagni di viaggio, che hanno saputo tutte esserci, sostenere, accarezzare, coccolare, abbracciare, scherzare, condividere, sfiorare il cuore, per portare un po’ i pesi insieme.
Le loro mani a cui ho potuto affidarmi fiduciosa nei momenti di difficoltà e che mi hanno stretto tanto forte prima di lasciarmi alla fine andare.
Mani speranzose di tutti noi insieme che, durante le messe, nel momento della pace, si sono strette forti e si sono alzate in alto per poterle offrire tutte a Lui.
Ringrazio il Signore per avermi donato occhi e cuore per vedere il bello in ogni piccolo gesto di amore durante questo viaggio e per percepire la sua presenza dietro ad ognuna di queste mani.
E alla fine, ho capito che aveva ragione Suor Roberta della casa di carità di San Giuseppe: “Cercalo, non smettere mai di cercarlo, è faticoso, ma è l’unica cosa per cui vale la pena vivere!”.
Elisa Carpanoni
Antananarivo, 01.09.2018
Siamo arrivati alla fine del nostro percorso; pensiamo e ci chiediamo ormai tante cose, che si sommano, si moltiplicano, si incrociano, che si confrontano, si condividono… sempre alla ricerca di qualche risposta. Ve le offriamo così come ci vengono le nostre dodici e più prospettive mischiate, composte in un dialogo senza fine. E chissà se qualche domanda se la sta ponendo qualcun altro con noi in questo momento…
Io mi sento spesso osservata, è un po’ strano, ma chissà cosa pensano di noi!?
Sono sguardi che mi incuriosiscono, chissà cosa ci sta dietro. Un po’ di diffidenza?
Sicuramente questo riflettere su cosa pensa l’altro aiuta a decentrare il nostro punto di vista.
L’ospedale di Ampasimanjeva mi ha lasciato un magone dentro, mi ha smosso molte emozioni, è stato un piacere aiutare Chiara a risistemare il dispensario, ma c’è molto da fare, ci sono tante persone in difficoltà.
A me invece ha fatto venire tanta rabbia, basterebbe poco per risolvere problemi per noi piccoli. Mi ha colpito molto vedere che il ragazzo a cui ho donato il sangue stava meglio e… parlava ora italiano!
Pensa se ci fosse un mio caro lì nell’ospedale…
Mentre facevamo il giro, mi sono rivista io adolescente che mi lamentavo per il servizio italiano e mi sono fatta un po’ schifo. Infatti, mentre facevamo il giro, non ce la facevo più, mi sentivo troppo in colpa e sono andata un po’ in camera, poi sono tornata
.
Ma quanto è difficile trovare il proprio posto in queste nuove situazioni!
Io oggi alla casa di carità di Ambositra mi sono sentita al posto giusto nel momento giusto, mentre prima, visto che non avevo mai sentito neanche parlare delle Case di Carità, mi sono sentita un po’ esterna e non avevo capito bene come funzionassero, oggi mi sono sentita come in famiglia, come se fosse normale essere e stare lì. Mi sono tanto sentita in famiglia. Però hanno forse un diverso concetto di famiglia? Ognuno fa quello che può e dà il proprio contributo come può?
Qui c’è proprio il “mora mora” (il fare le cose piano piano), bisogna accettarlo?
Mi sono sentito che qui potevo andare piano, non dovevo subito correre a fare qualcos’altro come in Italia e quindi mi sono fermato a dare da mangiare a quel ragazzo in carrozzella alla Casa di Carità ad Ambositra e sentivo che lui si fidava di me e che forse mi aveva preso in simpatia. Gli altri mi dicevano che ci stavo mettendo troppo, ma io non avevo fretta e sono stato lì con lui, cucchiaio dopo cucchiaio.
Mi sono fermata con Edmund, un ragazzo ospite della Casa di Carità di Ambositra, a scambiare una o due parole in italiano, per la mia ignoranza della lingua malgascia, e poi siamo rimasti a guardarci negli occhi e a sorridere in silenzio e… per un momento è scomparso tutto quello che c’era intorno a noi e c’eravamo solo io e lui. È la lingua l’unico mezzo per comunicare?
Stasera, dopo il pomeriggio passato giocando a basket alla casa dei fratelli di Ambositra, ho scritto troppo, davvero tanto, pensa che non scrivevo così dalla prima elementare!
Loro, a differenza nostra, stanno sempre insieme, sono molto uniti, i bambini li vedi molto coesi. Per giocare a calcio con i bambini e i malati di tubercolosi ad Ampasimanjeva, mi avevano dato una casacca diversa da vazaha e io alla fine non l’ho messa, però ho sentito la diversità. Quando gioco con loro a calcio, dopo sono piena di lividi, ma mi si apre il cuore.
Come ci comportiamo con chi chiede l’elemosina? E con quelli che vendono ai margini della strada? Dopo aver pranzato in un hotely gasy (ristorante per vazaha) ad Antsirabe, ci sono venute incontro delle persone che chiedevano l’elemosina e mi sono sentita male… io avevo mangiato e avevo la pancia piena e loro invece? È stata un’esperienza molto dura.
Mi ha colpito molto l’ospedale psichiatrico di Ambokala, la donna dietro alle sbarre, anche se ci sono delle giuste motivazioni ed è solo per un periodo, mi è sembrato per un attimo di essere in un carcere e poi le camerate come in un ospedale, i parenti che per fare assistenza devono dormire per terra…
Le persone che incontriamo qui ogni giorno vivono la loro condizione come normale?
Sì, stanno bene così, per loro è bello così!
Ma forse perché non conoscono altro, non hanno altre aspettative, non hanno una percezione completa di cosa vuole dire vivere meglio?
Quanta sporcizia, quanto disordine, quanta povertà poco dignitosa, ma cosa vuol dire per loro e per noi dignità?
A cosa può portare la tecnologia qua? E da noi? Ho paura che distrugga anche qui le relazioni belle, vere e dirette che invece noi abbiamo potuto instaurare. È stato bello ricominciare a giocare con i bambini per davvero, direttamente e non attraverso uno schermo.
Mi fa rabbia pensare che ci sono tanti bambini con tante potenzialità non sfruttate e che non avranno mai la possibilità di metterle a frutto. Se chiedi ad un bambino malgascio: “Che cosa vuoi fare da grande?”, che cosa risponderà?
Si vede che hanno bisogno di figure di riferimento, diventano autonomi troppo presto.
Alla fine, mi viene voglia di abbracciarli tutti!
Sono belli i loro sorrisi, danno un senso di accoglienza, mi ha colpito il loro voler creare subito un contatto vero ed autentico. Sono sereni, nonostante tutto?
Loro stanno lungo la strada per stare insieme agli altri, per incontrare l’altro?
Quanta rabbia che mi viene a pensare che non fanno nulla per cambiare la loro condizione, che stanno lì fermi, seduti!
Mi ha colpito vedere così tanti schiavi manuali, come ad esempio l’ambiente di lavoro degli artigiani che lavorano l’alluminio in condizioni non umane… e dobbiamo riflettere insieme: quale sarà il nostro ambiente di lavoro?
Ma mi ha colpito anche la forza dell’uomo sul lavoro come ad esempio per quanto riguarda le suore.
Alcuni progetti di RTM non vengono più finanziati perché non danno risultati visibili subito… non si può chiedere a qualcuno, ad una popolazione, qualcosa che non può ancora dare e toglierle anche quel poco che è riuscita con fatica a dare.
Bisogna avere rispetto per chi prova a fare qualcosa anche se non va alla fine bene.
Ci vorrebbe una rivoluzione culturale partendo dalla scuola e dai bambini o da un colpo di stato.
Riesco a vedere oltre la sofferenza qui, forse per il mio lavoro, ma il livello di frustrazione inevitabilmente si alza e mi vengono in mente mille cose che si potrebbero fare nella nostra ottica, ma che magari non hanno senso qui? La via è forse quella di mettere nelle condizioni di scegliere e di fare come vogliono loro, non di dire loro come fare o fare le scelte al posto loro.
Il Madagascar ci può insegnare davvero tanto. Sarebbe bello portare il Madagascar a casa nostra e non il contrario.
La cosa più bella è stata la figura missionaria di Don Pietro Ganapini, sarei stato ad ascoltarlo per ore, se non fossimo dovuti andare vià. Siamo anche rimasti tutti tanto colpiti dai volontari, dai preti, dalle suore, dai consacrati, da chi ha fatto la scelta di stare ad operare qui. Mi sembra che abbiano una vocazione molto forte e si sente.
Ma lavorano per il progresso economico di questo paese o per altro? Dovrebbero operare per il benessere materiale, per quello spirituale o per entrambi?
Quale logica dobbiamo seguire nel vivere la nostra vita? Quella occidentale dell’accumulazione e della moltiplicazione o quella della semplicità e dell’umiltà?
Io sono venuto qui per seguire la seconda, per ritrovare le cose semplici e anche forse più antiche.
Per me sicuramente la prima logica perché porta ad un benessere materiale e quindi aiuta a vivere meglio.
Sento che devo entrare in punta di piedi per conoscere queste persone, questo popolo. Forse basta solo stare accanto e affiancarsi?
Abbiamo riflettuto insieme con l’aiuto di Don Simone Franceschini sul Vangelo del 15.08 (Lc 1, 39-56) ad Anorombato e quindi sulla vocazione di ognuno di noi…
Ma io non sono un salvadanaio! Durante la pausa dopo il mio servizio in ospedale, avevo solo bisogno di parlare con qualcuno che mi ascoltasse e che si interessasse a me, a come stavo… invece alla fine della chiacchierata mi ha chiesto dei soldi… ti chiedono sempre dei soldi… ma noi vazaha siamo per loro solo i bianchi con i soldi? Io non ho scelto di essere ricca, non vorrei essere il ricco che il Signore lascia a mani vuote.
Il Signore in questo Vangelo non ci vuole punire, ma ricompensare invitando a riconoscere e a rimettere al centro le cose essenziali, ciò che conta veramente.
Ci dice che saranno gli umili ad essere innalzati, da speranza e ci libera questo pezzo di Vangelo!
È molto bello pensare che il Signore innalzi le suore, i volontari, tutti gli umili, è consolante.
Ma perché sono dovuta venire fino a qua per trovare l’umiltà? Anche a Reggio Emilia ci sono tante persone umili, basta cercarle!
Io non sono venuta qui per capire qualcosa sulla mia vita o cercare, ma semplicemente per conoscere questa realtà e dove tutto è cominciato. È vedo che è tutto molto bello!
Ora riesco più a ringraziare, a riconoscere e ad avere la consapevolezza delle cose belle che vivo, come l’opportunità di questo viaggio. La domanda che mi pongo è: Maria ha avuto paura? E anche: come ha fatto a riconoscere che quello era il suo ruolo, la sua missione.
Ho tanta paura ad affidarmi. Cosa vuole il Signore da me? Cosa vuole che io faccia?
A volte mi chiedo cosa ci faccio qui? Oggi sento di aver fatto la cosa giusta, ieri pensavo che era meglio tornare a casa, cosa devo fare?
Ma qual è la mia casa? Cosa devo chiamare casa? Casa di qua, casa di là, non ci capisco più niente!
Quanto è difficile farsi aiutare come Elisabetta da Maria! Ho provato cosa vuol dire essere incinta e aver bisogno di aiuto anche solo per allacciarsi le scarpe. Ma quanto è difficile chiedere aiuto per me?
Ha senso continuare a seminare anche se con fatica oppure ha senso non aver più speranza e pensare che sia un paese solo per volontari?
Basta la vocazione o bisogna anche tener conto dei limiti che i volontari che operano in Madagascar ci hanno mostrato quando non vedono i miglioramenti? Come ad esempio operatori che rubano medicinali, popolazione che non capisce il tuo lavoro, malgasci stipendiati che non fanno il loro lavoro…
I volontari si vede che possono provare anche loro rabbia, che diventa spesso rassegnazione… ma come fanno poi a ripartire con umiltà? Hanno davvero tanta tenacia!
È un bisogno nostro quello di vedere subito i risultati oppure ha un senso?
Bisogna concentrarsi solo sulle potenzialità o anche considerare le possibilità qui per i malgasci?
Bisogna denunciare queste condizioni oppure accettare questa realtà così com’è?
Ha senso fare un confronto con la nostra realtà oppure no?
Abbiamo visto cose che fanno ripensare alla nostra storia, che ci portano a ritoccare la nostra visione e le nostre aspettative, capire i nostri limiti, mettere in discussione la nostra visione.
Ad alcune abbiamo provato a dare una risposta, ma ve le offriamo così aperte, perché la ricerca non finisce mai…
Francesco, prima di continuare il suo percorso con sua moglie Silvia insieme a Don Olivier, ci aveva consigliato di continuare a mettere sul tavolo tutte le emozioni che avremmo provato da quel momento in avanti e allora noi… abbiamo continuato e continuiamo.
Sappiamo che il Signore è lì, sempre con noi, che conosce tutti i nostri pensieri, le nostre emozioni, le nostre domande e quindi glieli affidiamo. Gli chiediamo anche di non smettere di farci interrogare sul senso della nostra missione qui, oggi, su questa terra e di permetterci di leggere i cartelli stradali che pone sulla strada della vita di ognuno di noi.
I campisti del Madagascar alla ricerca
Qui a Manakara abbiamo frequentato la lezione di sport del lunedì con gli ospiti dell’ospedale psichiatrico di Ambokala.
Ginnastica con gli ospiti dell’ospedale di Ambokala
Lorenzo ci ha saputo accompagnare con leggerezza di cuore e ironia facendoci muovere i muscoli, non solo fisici, in sintonia.
Insieme a Giulia e Chiara abbiamo costruito ponti e strade di speranza, abbiamo respirato il profumo dell’Oceano Indiano, ricevendo così il grande regalo di poter fermarci a contemplare la bellezza dell’infinito e della creazione.
La Confiserie di Manakara
Abbiamo assaggiato le marmellate vendute nel negozietto della diocesi di Reggio a Manakara, dove si commerciano caffè, saponi, olii essenziali, miele e tanti altri prodotti, frutto del lavoro di donne, altrimenti disoccupate.
Abbiamo visitato l’ufficio e il centro culturale di RTM. Ora ci lavorano Enrico e Tania che ci hanno parlato delle difficoltà che incontrano nel provare a cambiare le cose in profondità e nel ricevere finanziamenti per continuare a lavorare con le autorità malgasce su temi di grande importanza.
Abbiamo avuto la possibilità di accompagnare i volontari di RTM a fare una sensibilizzazione sulla cura della malattia della lebbra in un villaggio qualche chilometro più in là, dove ci siamo fatti prendere dai sorrisi e dalla gioia contagiosa dei bambini incontrati.
Giochi con i bambini nel villaggio
Abbiamo conosciuto Luciano che ci ha parlato dei suoi progetti e della sua vocazione, che ci ha trasmesso il senso dell’esserci sempre per gli altri, con umiltà, in silenzio e nell’ombra.
Abbiamo visitato quell’oasi di pace della Ferme di Analabe‚ un posto dove ognuno può dare il proprio contributo, dove può ritrovare il contatto con la bellezza della natura e dove c’è spazio di recupero, di progettazione e di incontro.
Proprio qui, una volta all’anno viene organizzato un campeggio di tre giorni con i ragazzi dei vari distretti della parrocchia di Manakara che‚ finalmente‚ possono stare insieme ed essere bambini, imparando attraverso il gioco. E’ stato un privilegio aver condiviso, anche solo per un giorno, questo momento.
La chiesa costruita da don Giovanni Ruozi con l’aiuto della diocesi di Reggio
Abbiamo visto la luce del Signore nella chiesa nuova di Gesù Misericordioso costruita con tanto amore per volere di Don Giovanni. Nonostante la grandezza della chiesa, ci racconta che alla domenica si può far fatica a trovare un posticino per stare insieme alla comunità e al Signore.
Mentre ci parlava, potevamo sentire la sua gioia, il suo averci messo anima e corpo, la sua umiltà e obbedienza per la preparazione del suo ritorno in Italia.
Presto, anche Damiano avrà la possibilità di iniziare il suo percorso lì. Gli mandiamo un forte e caloroso abbraccio, ringraziandolo per il suo essere sempre pronto a fare e per aver condiviso con noi momenti del campo molto forti che ricorderemo con il sorriso sulle labbra.
Infine, pensavamo che…
forse le persone che abbiamo incontrato qui hanno un filo rosso che le collega, una missione comune: camminare mano nella mano con il Signore, facendo rifiorire persone, piante, animali, ridando la vita, essendo sempre alla ricerca, provando a crescere e maturare, tentando poi di accompagnare anche gli altri in questo cammino.
Ringraziamo il Signore per averci dato la possibilità di fare questi incontri che ci interrogano, ci smuovono e ci lasciano tanta speranza.
Bambini, bambini e ancora bambini, bambini ovunque andiamo.
Qui la vita inizia in ogni angolo.
Bambini che ci sciolgono con i loro sorrisi, un po’ sdentati, ma tanto lucenti.
Bambini che, come ci racconta Giulia, fin da piccoli ad Ampasimanjeva sono spesso chiamati a tener dietro agli zebù, ad avere il ruolo di piccoli pastori perdendo così la possibilità di frequentare la scuola, di viversi l’infanzia.
Bambini curiosi che, appena ci vedono, con un po’ di vergogna tentennano fra lo stare e lo scappare, ma quando decidono di rimanere, sentiamo la loro accoglienza vera e sincera, come un immenso abbraccio anche senza sfiorarci.
Bambini che portano sacchi pesanti sulla loro testolina, che tengono sulla schiena il fratellino o la sorellina, due cuori vicini, che si toccano, uno che impara presto cosa significhi essere responsabile e l’altro che si deve affidare.
Bambini che ci seguono ovunque andiamo, che corrono come forsennati dietro al nostro pulmino, pur di non perdersi il saluto di un “vazaha” (straniero).
Bambini colorati nel loro vestito migliore per l’occasione della messa, che sanno a memoria le canzoni di chiesa perché sono le uniche che possono ascoltare.
Bambini silenziosi nel nostro momento di condivisione con Don Simone ad Anorombato, il giorno prima di ferragosto, che ci osservano prima con occhi stupiti poi ci scrutano uno ad uno per comprendere cosa stia succedendo, condividendo con noi semplicemente standoci accanto.
Bambini che non si sa neanche se nasceranno, che potrebbero morire dopo i primi battiti, che hanno un pancione gonfio come un palloncino, pieni zuppi di fango, con una sola ciabatta, quasi tutti con i piedi scalzi, con le treccine o con i codini, che si lavano nel fiume.
Bambini che si divertono come pazzi a fare i bans con Chiara, che adorano le foto, che non vedono l’ora di vedere finalmente la loro espressione riflessa come su uno specchio, che ridono come matti appena mostriamo loro la foto appena scattata, che vorrebbero essere riconosciuti, sognati e ricordati.
Bambini che, ai vari mercatini che incontriamo, rimangono lì tutto il giorno con i genitori, ad aspettare, a sgranocchiare, a osservare, a succhiare da un seno offerto gentilmente da mamme stanche e segnate.
Bambini che calciano un pallone composto da stracci, che rincorrono Roberta e Martina, che assaltano Damiano, che farebbero qualunque gioco insieme a noi.
Stasera, prima di dormire, sotto questo cielo zuppo di stelle nell’emisfero opposto, pensiamo solamente che tutti noi siamo stati bambini e che è proprio un dono grande poter intrecciare la nostra vita con quella di questi bambini.
I campisti malgasci – Ampasimanjeva 18/08/2018
Eccoci qua,
anche se fisicamente non ci siamo mossi molto, se non di qualche chilometro attorno alla nostra città, il cammino in questi mesi è stato lungo e intenso.
Che bello è stato provare a conoscerci e riconoscerci un po’ in quella scintilla che lentamente, ma costantemente, ci brucia dentro!
Sento che ognuno di noi ha tanta voglia e desiderio di comunione, tanta sete di conoscenza diretta che può diventare testimonianza, che apre gli occhi e inevitabilmente ‘slarga il cuore’, come mi disse una volta Padre Danilo.
Emozioni forti e pensieri in circolo oggi in questo aeroporto che ci seguiranno dopo i 7947 chilometri che abbiamo davanti.
C’è soprattutto una frase di una canzone che mi si è attaccata addosso e ora non mi molla più: “Io sarò con te dovunque andrai.”
Ci siamo interrogati in questi mesi sul nostro ruolo durante il campo, abbiamo chiesto quale potesse essere la nostra ‘missione’ e la risposta che alla fine ci siamo dati è il non voler essere supereroi o solamente fare, ma essere umili e provare solamente a STARE. Quest’ultima parola ci ha fatto tanto ridere inizialmente, ma stare dove, come, perché? Poi anche un po’ arrabbiare e impaurire, ma saremo pronti solo a STARE? Siamo davvero preparati a saper accogliere con umiltà, senza giudizio e a cuore aperto tutto ciò che incontreremo?
In qualche importante incontro ho ricevuto parole di luce su questo: guarda negli occhi, soffermati sui particolari, tocca con mano, dài e ricevi quello che riesci, cercalo, non avere timore, contempla e apprezza quei colori così belli e intensi, mettiti in ascolto, parla con chi è stato chiamato a fare scelte forti, raccogli storie, stai, stai e ancora stai lì, nel presente di quello che vivi.
E allora ho capito quanto siano importanti gli incontri, quelli veri ed autentici.
E quindi oggi siamo qui, ci proviamo e ringraziamo per il dono grande di questo viaggio, per questo sorriso di gioia profonda che ci dipinge il viso, che ci fa commuovere e sentire uniti, carichi di aspettative, ma ormai ci siamo… forse siamo pronti ad andare.
I partenti per il campo missionario in Madagascar (09/08-02/09)
Domenica 6 maggio a Imola si terrà una Giornata di formazione organizzata dai Centri Missionari dell’Emilia Romagna per quanti la prossima estate faranno un campo in missione. Sono tante le destinazioni, così come sono tante le realtà presenti in Regione che organizzano un campo all’estero per i giovani che desiderano conoscere da vicino le missioni. Anche il Centro Missionario di Reggio Emilia invita quanti si sono iscritti ai campi proposti per l’Estate in missione 2018 a partecipare alla Giornata di formazione a Imola, dove incontrare alcuni personaggi significativi… Per compiere questo “viaggio” è necessario stampare e compilare il “biglietto di prenotazione” e consegnarlo al proprio referente del campo.
Ti aspettiamo e… buon viaggio!!!
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