La vita di una parrocchia nella pandemia

 

Un’esperienza dal Paraguay

Essere “testimoni e profeti” – secondo l’invito della Direzione nazionale delle Pontificie Opere Missionarie per la Giornata Missionaria Mondiale 2021 – richiede innanzitutto una capacità di lettura di quanto vissuto. Se il profeta indica l’orizzonte, è perché scruta il presente senza lasciarsi ingannare dall’effimero e dalle apparenze.

Riconoscere quanto avvenuto in questo tempo di pandemia è allora la prima cosa che ci viene chiesta. Diventa importante chiedersi cosa abbiamo imparato in questo periodo nel quale anche la vita ecclesiale è stata sconvolta. Come molti hanno ripetuto, “niente sarà più come prima”: quanto avvenuto non possiamo interpretarlo semplicemente come un incidente di percorso, da mettere tra parentesi, con un processo di rimozione di quegli interrogativi scomodi che la situazione provocata dal lockdown ha fatto emergere: gli edifici sacri vuoti sono il preannuncio di una condizione futura di sempre maggiore marginalità della Chiesa o, se non altro, di un progressivo assottigliamento dell’espressione comunitaria della vita di fede? Recupereremo le posizioni perdute? Insieme ai rami secchi, scossi da questa tempesta, cadranno anche quelli verdi?

Se, nella risposta, prevalgono i nostri pregiudizi, i nostri timori o le nostre attese, è grande il rischio di lasciarsi fuorviare.

Per evitarlo, è fondamentale partire non dai nostri pensieri o ragionamenti, ma dalla realtà di questi mesi, sforzandosi di rileggerla il più possibile oggettivamente e, soprattutto, con quello sguardo di fede senza il quale risulta mutilata e deformata.

Uno sguardo di fede sul presente è quanto viene richiesto a testimoni e profeti. Così, come équipe pastorale della Comunità Redemptor hominis che lavora nella parrocchia Sagrado Corazón de Jesús di Ypacaraí – nella cintura di Asunción, capitale del Paraguay, fortemente colpito dal Covid-19 – abbiamo cercato di vivere anche il tempo della pandemia come un tempo di Dio, e non di una sua assenza.

Se i banchi della chiesa erano ormai vuoti, questo doveva portarci a riscoprire che non sono le nostre attività che salvano, ma Gesù crocifisso. Quando Gesù è sulla croce, non può più predicare, visitare la gente, fare miracoli. Rimane nell’immobilità assoluta, eppure in quel momento realizza l’azione più importante della sua vita, dal valore eterno e definitivo.

Bisognava assicurare la presenza di Dio in mezzo a persone spesso smarrite, in un tempo di solitudine e angosciante paura in cui era facile cadere nelle trappole di un fideismo per il quale “in chiesa non ci si ammala” e “chi crede veramente guarisce”; di un miracolismo che pensa di risolvere tutto con delle preghiere; di un fanatismo religioso tinto di riflessi apocalittici; della diffidenza verso la scienza.

L’immobilità forzata, innanzitutto, ha portato a riscoprire il valore della preghiera autentica, in particolare di quella fatta gli uni per gli altri, come ricordo e intercessione. Stare in chiesa per quanti non potevano più entrarci, e passavano sostando un momento sul sagrato, è apparso ancor più chiaramente come opus Dei, lavoro di Dio, ovvero lasciare che Dio lavorasse coi suoi metodi, e vedere nella preghiera un lavoro, il più importante: vera “opera” di misericordia, che come ogni lavoro richiede dedizione, perseveranza, metodicità. Alla ricerca di quell’unità che non potevamo più sperimentare separati gli uni dagli altri, ci siamo rivolti alla fonte dell’unità: Dio. La vita dell’uomo, e ancor di più la vita del cristiano, è vera soltanto quando è relazione con Dio, fonte e culmine della relazione con gli altri.

Questa nuova situazione ha, così, favorito un rapporto più spirituale con tutti, perché la comunione si radica prima di tutto nella preghiera.

paraguay 2 RH

Abbiamo cercato nuove vie per mantenere i contatti con i parrocchiani, partendo dal principio che il metodo efficace di diffusione di una vita evangelica sono le relazioni da persona a persona e lo scambio cuore a cuore.

Questa convinzione ha indirizzato le attività nei vari campi che ci siamo suddivisi. I contatti sono stati mantenuti incessantemente con moltissime persone. Diversi che, per le varie circostanze della vita si erano allontanati, si sono riavvicinati. Consolare quanti avevano un familiare in ospedale, spesso in terapia intensiva, o l’avevano perso, ha rappresentato un compito costante ed esigente.

Molto importante è stato, fin dall’inizio della pandemia, l’invio settimanale delle “Omelie nel tempo del Coronavirus” di don Emilio, nostro fondatore e vicario parrocchiale qui a Ypacaraí. Dalle innumerevoli reazioni pervenute, abbiamo constatato che siamo riusciti a raggiungere molte più persone di quelle che normalmente frequentavano la parrocchia prima della pandemia, arrivando, anzi, ben al di là dello stesso territorio parrocchiale e diocesano. Il dialogo che si è sviluppato a partire dalle loro reazioni ha permesso un’interazione a doppio senso.

I rapporti con le autorità cittadine si sono rafforzati, sia sul piano della pólis, al di là degli schieramenti partitici, sia a livello delle autorità sanitarie e, in un tempo di accresciuta povertà, abbiamo intensificato l’azione discreta e rispettosa della Caritas verso i più bisognosi.

La catechesi svolta in forma virtuale ha permesso ai genitori di essere più vicini ai loro figli nell’itinerario di preparazione ai sacramenti e i giovani hanno apprezzato lo sforzo della parrocchia per non abbandonarli a se stessi.

Forse mai come in questo tempo così tanta gente si è sentita unita alla parrocchia. La croce è sempre feconda, e la stessa morte di certe espressioni di vita pastorale ci ha restituito una parrocchia più vivace di prima. 

Rimangono, naturalmente, molti interrogativi. Ma Papa Francesco ci insegna che non è importante dare soluzioni a tutti i problemi, quanto piuttosto avviare processi. E quanto vissuto in questo tempo contiene già indicazioni preziose per il futuro.

Don Michele Chiappo
Comunità Redemptor hominis

Sito web della Comunità Redemptor hominis: https://www.missionerh.com