Dio è nei dettagli

 

Finalmente il 4 febbraio atterro a Goma. Scopro subito che gli amici han fatto il possibile per facilitarmi le operazione doganali e rapidamente esco dall’aeroporto e mi immergo nel Congo.

Mi capacito a fatica di come nel giro di 24 ore si possa arrivare in luoghi così totalmente diversi. Non entro neppure in casa, già sul cancello una piccola delegazione di familiari (la mia famiglia congolese di adozione) mi attende.

Ci abbracciamo (il Covid qui è vissuto diversamente). Durante tutto il pomeriggio continuano ad arrivare amici a salutarmi. Tutti ringraziamo Dio, non speravano più di vedermi a causa del Covid in Europa.

Il «corona» non fa paura. Qui si muore per fame, malaria, perchè non si hanno i soldi per poter accedere alle cure di banali malattie. Si muore spesso per gli attacchi dei banditi o dei gruppi armati
(ve
 ne siete accorti con la tragedia dell’ambasciatore).

Qui la tragedia è di casa, ma anche la gioia e la speranza abitano qui. Un’amica tempo fa mi diceva: «potete toglierci tutto ma non la nostra gioia di vivere» .

Davvero la felicità è nelle piccole cose e Dio si nasconde nei dettagli.

dio si nasconde nei dettagli - Congo

Il Covid è decisamente meno mortale che da noi e qui si vive. Un amico medico mi spiega che la resistenza forse è dovuta al vaccino contro la TBC. I missionari mi assicurano che ormai il rischio è passato. Mi adeguo, tengo la mascherina solo a Messa (dove il parroco minaccia sempre di cacciare dalla chiesa la maggior parte dei fedeli, che non la indossano), sul bus, nei luoghi chiusi ed affollati.

A Goma mi reco immediatamente in prigione, dove le guardie mi riconoscono e mi salutano calorosamente: «sei riuscita a venire anche con il Covid!!! Grazie! Pole sana – ci dispiace – per l’Italia». E così mi accolgono anche alcuni prigionieri che mi ricordano.

Mi viene chiesto partecipare alla Messa della domenica per salutare, poi mi reco in visita in famiglia per conoscere una bimba nata durante la mia assenza.

La cura nei miei confronti è grande! Quando il capofamiglia mi riaccompagna a casa è già tardi e molto buio. Visto che nessuno apre il cancello nonostante i colpi di clacson, faccio per scendere dall’auto e bussare. Mi fermano, vogliono portarmi oltre il portone, non è una zona sicura, meglio che io non scenda per strada. Manya mi protegge più di quanto lo sappia fare io. Dio è nei dettagli.

Parto per Bukavu in battello, indossando la mascherina.
Il lago mi si presenta in tutto il suo splendore, è una bella giornata e scatto qualche foto. L’unica nota triste è la deforestazione, che ora provoca un sacco di frane…

panorama del lago Kivu - Congo«Solita festa» al mio arrivo in quella che sarà «casa». Una camera da Grandhotel con bagno privato, acqua calda e fredda (quando c’è). Inizio il lavoro a Ek’Abana. I dipendenti sono una ventina e si occupano di circa 1500 bambini «esterni», di bimbi con disabilità, di formazione  dei genitori e, non ultimo, della casa (Ek’Abana significa Casa dei bambini) in cui vivono 43 bambine e un paio di bambini.

Queste minorenni hanno storie molto pesanti. La maggior parte di loro sorride, i piccoli ridono, mentre alcune sono cupe, altre parlano pochissimo. In questo mese ne ho viste arrivare altre 3, tutte con il solo abitino che
avevano addosso e la paura negli occhi, affamate. Dopo soli pochi giorni, l’accoglienza calorosa delle altre fanciulle che hanno passato la stessa esperienza le rende più serene.

riflessione sulla quaresima nel refettorio di Ek'Abana - CongoUna ragazzina con alcuni disagi psichici è ritornata a casa e si sta monitorando il suo reinserimento in famiglia (che non è scontato). Invece un’altra bimba, che semplicemente si era persa, è stata riportata alla sua famiglia e, al suo ritorno a casa, l’intero villaggio l’ha accolta come una principessa.

Il mio swahili non mi permette ancora di dialogare con i più piccoli: le scolare dovrebbero tutte parlare in francese, ma i bambini più piccoli (da 15 mesi a 6 anni) mi parlano in swahili come se io capissi tutto quello che mi raccontano… devo decisamente prendermi del tempo per studiare, perché anche parlare la lingua locale correntemente è un segno di vicinanza.

In casa vivo con:
Natalina, la mia “capa” italiana, consacrata della diocesi di Milano, responsabile di Ek’Abana, e Maria, belga. Entrambe vivono in Congo da 40 anni, sono grandi esperte della zona e delle usanze;
Charline, una giovane dottoressa congolese; Jean Paul, il cuoco, e Jolie, una giovane tuttofare che si paga gli studi lavorando con Maria, non alloggiano nella casa ma vengono ogni giorno.

C’è sempre un discreto viavai di gente che viene a cercarci; forse ora, dopo qualche settimana, riesco ad arginare il grande bisogno di commercio degli artigiani, disperati perchè a causa del Covid non ci sono più gli stranieri, che sono i loro unici clienti. Spiego loro che anche in Italia l’economia tracolla, ma la fame è un argomento più forte e non posso certo biasimarli. Con uno, che conosco meglio degli altri, mi spingo a fare un discorso un pochino più approfondito sulle cose del mondo. Ad un certo punto mi confessa delle difficoltà a trovare da mangiare: i figli studiano e vuole che terminino la scuola, lui a volte la sera beve solo del the. E’ proprio una confidenza, non una richiesta di aiuto, e come tale la custodisco e pesa sul mio cuore. Dio è nei dettagli, nell’ascolto.

esempio di cucina - CongoQui quelli che possono mangiano al mattino e alla sera, non si pranza; se si salta un pasto vuol dire che si mangia una sola volta nelle 24 ore. 

Non manca il cibo, mancano i soldi. Questo paese potrebbe nutrire tutta l’Africa abbondantemente (dati PAM, Programma Alimentare Mondiale, ONU, che ci ha dato l’unico italiano sopravvissuto all’attentato in cui han trovato la morte l’ambasciatore italiano, la sua guardia del corpo e l’autista del PAM).

Non vi racconterò più nulla sulla morte degli italiani, ho già scritto e parlato, se non che qui: quando si tocca l’argomento, la gente è sinceramente dispiaciuta. I congolesi che hanno conosciuto l’Ambasciatore (tanti anche qui all’Est) lo ricordano con estrema simpatia. L’amico artigiano mi racconta che quel famoso sabato era andato con altri ad attenderlo davanti al cancello della casa madre dei saveriani e che Luca era stato molto gentile con loro: aveva promesso che la prossima volta avrebbe acquistato molto artigianato. E loro sono certi che lo avrebbe fatto, perché altre volte aveva rispettato la promessa e acquistato molto, proprio per sostenere il loro lavoro.

Sono stata invitata ad una festa a sorpresa, il 65esimo compleanno del capo della famiglia (la mia qui). Non tutti arrivano a 65 compleanni…

Ho bisogno di serenità, non è semplicissimo – anche a causa dei mille messaggi preoccupati che mi arrivano- andare oltre l’attentato dopo aver conosciuto le vittime.
Mi immergo nella capacità incredibile di resilienza e di gioia di questa gente, che sa festeggiare la vita anche se viene minacciata ogni giorno dalla violenza evidente (le armi, gli stupri) e da quella subdola (l’economia che uccide, manovrata da quel 20% dell’umanità di cui noi, che non conosciamo la fame, facciamo parte).

Ho scritto troppo, vi lascio con l’impegno di raccontarvi prossimamente dei GII, i gruppi di inclusione e integrazione che Ek’Abana sta proponendo nelle parrocchie della città, per la cura dei bambini che presentano delle disabilità o dei disagi psichici. 

Vi racconterò anche della rete che si sta costruendo in riferimento alla Laudato sii, rete che si pone il problema della pace legata all’ecologia e all’ambiente. Cose molto interessanti. E per finire vi scriverò sulla festa dei diritti della donna, che qui si festeggia due volte, l’8 marzo in modo «laico» e il prossimo 25 marzo con una Messa celebrata dal Vescovo e altre iniziative.

La prossima volta vedrò di spiegarvi anche il progetto giochi per i bimbi e quello di alfabetizzazione nel villaggio di Kalonge. 

Kwa heri (arrivederci).
Donata