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Da Giulia: i mesi sono volati via…

Sono “già” a metà (visto il ritardo, un po’ più di metà).
Perché “già” e non “ancora”?!
Perché questi mesi sono volati via. Sono stati mesi pienissimi, tante esperienze e tante sensazioni.
Sono stati mesi di felicità assoluta, ma anche di tristezza, perché in fondo un pezzo di cuore è lì da voi e con voi!

Sono stati mesi pieni di volti nuovi, diversi, che all’inizio pensi di non riuscire mai a distinguere, ma che piano piano diventano la tua nuova famiglia.
Ambokala ne è un esempio lampante. L’impatto è stato forte all’inizio, ma adesso vorrei essere là, in ogni momento, anche adesso che sono sul letto in casa a scrivere, io vorrei essere là.
A fine luglio Enrica è tornata in Italia e ad inizio agosto se ne sono andate anche la Suora, Diana e Berthine. PANICO!
Ad Ambokala siamo rimaste l’assistente sociale ed io. Tantissime le paure: temere di non riuscire a far nulla, affrontare una nuova sfida, combinare guai, ma prima fra tutte la paura di non riuscire a dire una parola!
In realtà, agosto è volato via e i timori con esso! Ho iniziato a parlare e sto trovando il mio modo di stare con i pazienti, spesso non capendo nulla di quello che tentiamo di dirci, il momento migliore per ridere tutti insieme!

Tutti insieme ad Ambokala

TUTTI INSIEME: pazienti, cuoche, bambini, noi volontari, nessuno escluso!
Una cosa che credo di aver imparato in questi mesi è che spesso siamo portati a guardare queste persone con pietà, quasi come se provassimo compassione per loro. Non credo sia giusto. Loro hanno bisogno di essere trattati come tutte le altre persone, che siano poveri o ricchi, puliti o sporchi, bambini o adulti, sani o pazienti dentro alle celle d’isolamento!
Si, ad Ambokala ci sono le celle di isolamento!!!
TUTTI hanno bisogno di essere trattati allo stesso modo!
Un esempio? Michel!
Appena arrivato è stato messo nella cella di isolamento. Parlava di continuo, sembrava una radio. Alternava momenti in cui era arrabbiatissimo con il mondo e momenti in cui bastava guardarlo e diventava un bambino indifeso.
Avete presente quei bambini con quel visino che guardi e non puoi far a meno di sorridere?!
Così è stato con Michel!
Michel è quello che da dietro le sbarre della cella di isolamento fa “cucù” per farti ridere; è quello che ti sorride ogni giorno appena ti vede, dicendoti: “Ciao amica mia, è da tanto che non ci vediamo, sono felice che tu sia qui!” e magari ci siamo visti il giorno prima; Michel è quello che canta per tutti, se solo glielo chiedi; è quello che va al mercato con la mamma e riesce a farsi voler bene anche da un cane randagio; Michel è questo e tantissimo altro e mai mi permetterei di prenderlo in giro o di guardarlo con compassione, anche perché non ne avrei motivo!
Michel è unico e forse ce ne vorrebbero un po’ di più di Michel al mondo!!
Un abbraccio,
Giuli
P.S.
Quasi dimenticavo la cosa più importante! Il giorno dopo che ho inviato la lettera il mese scorso, Celà, il ragazzino di cui vi ho scritto, si è presentato a casa nostra con la sua mamma ed i suoi fratellini minori. Insomma, è tornato a casa!!!
Vive con la mamma e il suo nuovo marito, che per il momento sembra volerlo in casa e lo porta anche a lavorare con sé!
Prossimo obiettivo?! Ad Ottobre inizia la scuola, chissà, magari ha voglia di cambiare ancora di più il suo futuro!

Leila della tempesta - spettacolo

Leila della tempesta

Spettacolo il 23 settembre 2018
ore 16.30
Teatro Dante, parrocchia di
san Silvestro Cella
Via Cella All’Oldo n° 7, Reggio Emilia

Il libro di De Francesco, Leila della tempesta, cui si ispira lo spettacolo, racconta la storia dell’incontro
autobiografico tra Ignazio (monaco cristiano e islamologo) volontario in un Istituto penitenziario e Leila, una
ragazza tunisina detenuta nello stesso istituto. In questa relazione tra il volontario e la detenuta (musulmana e di
una religiosità popolare) vengono a galla alcuni temi forti, che appassionano entrambi: la fede religiosa, il
rapporto tra legge sacra (sharìa) e costituzione italiana (ma anche la nuova costituzione tunisina, l’unica che la
Primavera Araba ha partorito), il senso della detenzione come momento fondamentale per cercarsi e ritrovarsi
invece che come intermezzo di noia sedata.

Al termine dello spettacolo sarà possibile partecipare ad un breve dialogo
con il monaco Ignazio De Francesco, autore del testo, e Marwa Mahmoud
del Centro Interculturale Mondinsieme.
Ingresso: 10€.
Per informazioni e prenotazioni:
Maria Cristina Guarnieri 3488851739; Centro Missionario Diocesano 0522436840 (Lun. – Ven.)

Ipirà, gioie e preoccupazioni

Ipirá, settembre 2018

Cari amici, continuo a condividere qualche aspetto della esperienza missionaria in Brasile. Un dato interessante, comune a tutte le parrocchie e comunità della diocesi, è la grande importanza della Festa del Patrono. Si organizzano tridui o novene in preparazione alla festa del Patrono, e sono i giorni più importanti della vita della comunità cattolica.
La parrocchia di Ipirà è dedicata a Santa Anna, mamma di Maria, e nella chiesa centrale ( matriz) celebriamo la festa e la novena. Ho proposto per questo anno una riflessione sulla identità e ruolo dei cristiani laici nella chiesa, a partire dal documento dei vescovi del Brasile per l’anno del Laicato: sale della terra e luce del mondo. Ho proposto di non celebrare messe tutte le sere ma di preparare celebrazioni animate e presiedute dai laici stessi, con una meditazione sui temi principali della vita dei laici: famiglia, scuola, lavoro, associazioni ecclesiali, mondo giovanile, catechesi, vita politica……e la mia GIOIA è stata quella di vedere i vari gruppi di laici impegnati a preparare con cura le celebrazioni e le attività di ogni serata ( musica e vari stands); e ogni serata con una grande partecipazione di fedeli, in notevole aumento rispetto lo scorso anno.
In questa direzione la mia gioia anche per la nostra piccola Scuola teologica che sta continuando con i 40 parrocchiani molto fedeli: una volta al mese, dal venerdì sera alla domenica pomeriggio. Dopo una introduzione generale stiamo presentando una introduzione ai gruppi di libri biblici dell’Antico testamento: Pentateuco, Sapienziali, Profetici, Storici.
Sono molto contento nel vedere la perseveranza di questi laici ( considerando i problemi di trasporto che abbiamo) e la passione che hanno di fronte a un nuovo metodo di affrontare i contenuti della fede; si ritrovano anche a gruppetti, settimanalmente per studiare insieme. Molti non hanno una grande formazione scolastica e mi commuove l’impegno che hanno nel cercare di imparare.

– In parallelo abbiamo anche iniziato una formazione per il canto liturgico, con un tenore professionista che è anche cattolico attivo nella sua diocesi ( Feira di Santana); unisce la competenza tecnica sul canto alla competenza liturgica e ci sta aiutando molto. Un gruppetto ha iniziato a frequentare le lezioni, molto serie e tecniche, e questo aiuta a migliorare la mentalità di molti che è “fare quel che si sente e piace”, senza uno serio impegno per imparare. E’ un professionista che deve essere pagato, e sono soldi ben spesi se sono per una formazione seria e esigente! Mia soddisfazione e che oltre il gruppo iniziale, ora anche altri hanno chiesto questa formazione, quindi apriremo uno nuovo gruppo.
– Una gioia sarà l’Ordinazione Presbiterale del diacono Valmir, decisa per il 15 di dicembre, il primo prete diocesano proveniente dalla parrocchia di Ipirà.

Oltre le gioie, le preoccupazioni. Sono molte, ma vorrei condividere solo un aspetto, legato alle costruzioni delle cappelle delle comunità. E’ una preoccupazione comune a molti parroci della diocesi di Reggio; qui abbiamo costi minori, anche se alti per lo stipendio medio delle persone ( che spesso non hanno stipendio!). Con una parrocchia di più di 90 comunità, il tema delle costruzioni è costante.
– La scorsa settimana vado in una comunità dell’interno, ( Cobò) zona di campagna, arrivo alla chiesa per celebrare la messa; stranamente non vedo persone, ma anche non vedo la chiesa…. solo uno spazio vuoto. Era una piccola chiesetta con molte crepe, quindi hanno deciso di radere al suolo e costruire una nuova cappella, e per il momento una famiglia ospita la comunità per le liturgie.
– nella zona di Assentamento dom Mathias ( terre di latifondo date a famiglie con poche risorse), si usa il grande salone comunitario per le messe, ma le famiglie protestanti si lamentano, e allora per evitare conflitti, stiamo costruendo una cappella per la comunità cattolica ( con tempi molto lenti, in verità).
– A Jurema, altra comunitá dell’interno, con poche decine di persone, ci riunivamo in una piccola aula scolastica, e si é deciso di costruire una chiesetta lí accanto; ora abbiamo concluso il grezzo, cemento e mattoni e manca tutto il resto ( porte, pavimento…).
– A Canto do Rumo 1, eravamo in una scuola, ma ora la nuova direttrice, protestante, non accoglie molto bene il gruppo cattolico, quindi siamo andati in una casa abbandonata, e ora una signora é disposta a donare il terreno per la costruzione di una cappella. Ma è una zona con pochissima partecipazione di cattolici, e la comunità non ha mezzi economici; comunque dovremo decidere qualcosa.
– A Trapià, dove stiamo formando una nuova comunità, per ora ci raduniamo nella scuola, ma dovremmo costruire una chiesetta per riunire il gruppo di fedeli daranno inizio alla nuova comunità di base. Una giovane signora che frequenta le catechesi è disposta a donare una parte di terreno vicino alla sua casa, e potremmo costruire la cappella.
– E così in tante comunità della campagna dobbiamo ristrutturare la cappella o costruire un bagno o costruire una sala per la catechesi…..
– In città le esigenze sono molte. Abbiamo appena ristrutturato la chiesa centrale e la chiesa di Jaguarão che stavano crollando; dobbiamo ristrutturare e ampliare la chiesa del bairro di Casas Populares; ora stiamo costruendo chiesa e sala di catechesi nel bairro di Agnaldo Lima; abbiamo in città diverse comunità senza cappella, che si radunano nelle famiglie, ma lo spazio è insufficiente: la comunità di San Luca, di Flores da Chapada, di Monsenhor, di Vila Jesus…. il terreno è molto caro in città e senza donazioni è difficile per una comunità costruire cappella e spazi di incontro, ma stiamo tentando dove sia possibile.
– Oltre alla costruzione di chiese, dovremmo ampliare la casa parrocchiale, perché ci sono serate con molte riunioni in contemporanea e manca lo spazio. E anche il Centro di formazione, dove facciamo incontri e ritiri, avrebbe bisogno di stanze per dormire, un refettorio grande…… insomma l’incubo del mattone continua anche qui! Prendiamo comunque le cose con calma: ció che non é possibile realizzare oggi, si realizzerà quando sarà possibile, e per ora ci si arrangia.

– Si avvicinano i giorni della elezione del presidente, deputati, governatori ecc.. e la grande preoccupazione é la situazione politica del Brasile: la corruzione é quasi totale, é difficile trovare candidati che manifestino valori cristiani senza contraddizioni.
La sensazione diffusa è di sfiducia, con il pericolo, da parte delle comunità cattoliche, di abbandonare l’impegno politico e ritirarsi dai grandi temi sociali, lasciando sempre più spazio a persone senza scrupoli. Ma Dio è sempre capace di sorprenderci, per questo la nostra speranza non muore.

Un caro saluto, don Gabriele Burani

Quale cambiamento? Quale speranza? Quale futuro?

Antananarivo, 01.09.2018

Siamo arrivati alla fine del nostro percorso; pensiamo e ci chiediamo ormai tante cose, che si sommano, si moltiplicano, si incrociano, che si confrontano, si condividono… sempre alla ricerca di qualche risposta. Ve le offriamo così come ci vengono le nostre dodici e più prospettive mischiate, composte in un dialogo senza fine. E chissà se qualche domanda se la sta ponendo qualcun altro con noi in questo momento…

Ci siamo raccontati l’esperienza nei progetti della missione che abbiamo conosciuto…

Io mi sento spesso osservata, è un po’ strano, ma chissà cosa pensano di noi!?

Sono sguardi che mi incuriosiscono, chissà cosa ci sta dietro. Un po’ di diffidenza?

Sicuramente questo riflettere su cosa pensa l’altro aiuta a decentrare il nostro punto di vista.

L’ospedale di Ampasimanjeva mi ha lasciato un magone dentro, mi ha smosso molte emozioni, è stato un piacere aiutare Chiara a risistemare il dispensario, ma c’è molto da fare, ci sono tante persone in difficoltà.

A me invece ha fatto venire tanta rabbia, basterebbe poco per risolvere problemi per noi piccoli. Mi ha colpito molto vedere che il ragazzo a cui ho donato il sangue stava meglio e… parlava ora italiano!

Pensa se ci fosse un mio caro lì nell’ospedale…

Mentre facevamo il giro, mi sono rivista io adolescente che mi lamentavo per il servizio italiano e mi sono fatta un po’ schifo. Infatti, mentre facevamo il giro, non ce la facevo più, mi sentivo troppo in colpa e sono andata un po’ in camera, poi sono tornata

.

Ma quanto è difficile trovare il proprio posto in queste nuove situazioni!

Io oggi alla casa di carità di Ambositra mi sono sentita al posto giusto nel momento giusto, mentre prima, visto che non avevo mai sentito neanche parlare delle Case di Carità, mi sono sentita un po’ esterna e non avevo capito bene come funzionassero, oggi mi sono sentita come in famiglia, come se fosse normale essere e stare lì. Mi sono tanto sentita in famiglia. Però hanno forse un diverso concetto di famiglia? Ognuno fa quello che può e dà il proprio contributo come può?

Qui c’è proprio il “mora mora” (il fare le cose piano piano), bisogna accettarlo?

Mi sono sentito che qui potevo andare piano, non dovevo subito correre a fare qualcos’altro come in Italia e quindi mi sono fermato a dare da mangiare a quel ragazzo in carrozzella alla Casa di Carità ad Ambositra e sentivo che lui si fidava di me e che forse mi aveva preso in simpatia. Gli altri mi dicevano che ci stavo mettendo troppo, ma io non avevo fretta e sono stato lì con lui, cucchiaio dopo cucchiaio.

Mi sono fermata con Edmund, un ragazzo ospite della Casa di Carità di Ambositra, a scambiare una o due parole in italiano, per la mia ignoranza della lingua malgascia, e poi siamo rimasti a guardarci negli occhi e a sorridere in silenzio e… per un momento è scomparso tutto quello che c’era intorno a noi e c’eravamo solo io e lui. È la lingua l’unico mezzo per comunicare?

 

 

 

 

Stasera, dopo il pomeriggio passato giocando a basket alla casa dei fratelli di Ambositra, ho scritto troppo, davvero tanto, pensa che non scrivevo così dalla prima elementare!

Loro, a differenza nostra, stanno sempre insieme, sono molto uniti, i bambini li vedi molto coesi. Per giocare a calcio con i bambini e i malati di tubercolosi ad Ampasimanjeva, mi avevano dato una casacca diversa da vazaha e io alla fine non l’ho messa, però ho sentito la diversità. Quando gioco con loro a calcio, dopo sono piena di lividi, ma mi si apre il cuore.

Come ci comportiamo con chi chiede l’elemosina? E con quelli che vendono ai margini della strada? Dopo aver pranzato in un hotely gasy (ristorante per vazaha) ad Antsirabe, ci sono venute incontro delle persone che chiedevano l’elemosina e mi sono sentita male… io avevo mangiato e avevo la pancia piena e loro invece? È stata un’esperienza molto dura.

Mi ha colpito molto l’ospedale psichiatrico di Ambokala, la donna dietro alle sbarre, anche se ci sono delle giuste motivazioni ed è solo per un periodo, mi è sembrato per un attimo di essere in un carcere e poi le camerate come in un ospedale, i parenti che per fare assistenza devono dormire per terra…

 

Ci siamo interrogati su cosa si potrebbe fare là…

Le persone che incontriamo qui ogni giorno vivono la loro condizione come normale?

Sì, stanno bene così, per loro è bello così!

Ma forse perché non conoscono altro, non hanno altre aspettative, non hanno una percezione completa di cosa vuole dire vivere meglio?

        

Quanta sporcizia, quanto disordine, quanta povertà poco dignitosa, ma cosa vuol dire per loro e per noi dignità?

A cosa può portare la tecnologia qua? E da noi? Ho paura che distrugga anche qui le relazioni belle, vere e dirette che invece noi abbiamo potuto instaurare. È stato bello ricominciare a giocare con i bambini per davvero, direttamente e non attraverso uno schermo.

        

Mi fa rabbia pensare che ci sono tanti bambini con tante potenzialità non sfruttate e che non avranno mai la possibilità di metterle a frutto. Se chiedi ad un bambino malgascio: “Che cosa vuoi fare da grande?”, che cosa risponderà?

Si vede che hanno bisogno di figure di riferimento, diventano autonomi troppo presto.

Alla fine, mi viene voglia di abbracciarli tutti!

Sono belli i loro sorrisi, danno un senso di accoglienza, mi ha colpito il loro voler creare subito un contatto vero ed autentico. Sono sereni, nonostante tutto?

Loro stanno lungo la strada per stare insieme agli altri, per incontrare l’altro?

Quanta rabbia che mi viene a pensare che non fanno nulla per cambiare la loro condizione, che stanno lì fermi, seduti!

Mi ha colpito vedere così tanti schiavi manuali, come ad esempio l’ambiente di lavoro degli artigiani che lavorano l’alluminio in condizioni non umane… e dobbiamo riflettere insieme: quale sarà il nostro ambiente di lavoro?

Ma mi ha colpito anche la forza dell’uomo sul lavoro come ad esempio per quanto riguarda le suore.

Ma cosa si può fare? Ma cosa possiamo fare?

Abbiamo provato a darci qualche risposta?!?

Alcuni progetti di RTM non vengono più finanziati perché non danno risultati visibili subito… non si può chiedere a qualcuno, ad una popolazione, qualcosa che non può ancora dare e toglierle anche quel poco che è riuscita con fatica a dare.

Bisogna avere rispetto per chi prova a fare qualcosa anche se non va alla fine bene.

Ci vorrebbe una rivoluzione culturale partendo dalla scuola e dai bambini o da un colpo di stato.

Riesco a vedere oltre la sofferenza qui, forse per il mio lavoro, ma il livello di frustrazione inevitabilmente si alza e mi vengono in mente mille cose che si potrebbero fare nella nostra ottica, ma che magari non hanno senso qui? La via è forse quella di mettere nelle condizioni di scegliere e di fare come vogliono loro, non di dire loro come fare o fare le scelte al posto loro.

Il Madagascar ci può insegnare davvero tanto. Sarebbe bello portare il Madagascar a casa nostra e non il contrario.

La cosa più bella è stata la figura missionaria di Don Pietro Ganapini, sarei stato ad ascoltarlo per ore, se non fossimo dovuti andare vià. Siamo anche rimasti tutti tanto colpiti dai volontari, dai preti, dalle suore, dai consacrati, da chi ha fatto la scelta di stare ad operare qui. Mi sembra che abbiano una vocazione molto forte e si sente.

Ma lavorano per il progresso economico di questo paese o per altro? Dovrebbero operare per il benessere materiale, per quello spirituale o per entrambi?

Quale logica dobbiamo seguire nel vivere la nostra vita? Quella occidentale dell’accumulazione e della moltiplicazione o quella della semplicità e dell’umiltà?

Io sono venuto qui per seguire la seconda, per ritrovare le cose semplici e anche forse più antiche.

Per me sicuramente la prima logica perché porta ad un benessere materiale e quindi aiuta a vivere meglio.

Sento che devo entrare in punta di piedi per conoscere queste persone, questo popolo. Forse basta solo stare accanto e affiancarsi?

Abbiamo riflettuto insieme con l’aiuto di Don Simone Franceschini sul Vangelo del 15.08 (Lc 1, 39-56) ad Anorombato e quindi sulla vocazione di ognuno di noi…

Ma io non sono un salvadanaio! Durante la pausa dopo il mio servizio in ospedale, avevo solo bisogno di parlare con qualcuno che mi ascoltasse e che si interessasse a me, a come stavo… invece alla fine della chiacchierata mi ha chiesto dei soldi… ti chiedono sempre dei soldi… ma noi vazaha siamo per loro solo i bianchi con i soldi? Io non ho scelto di essere ricca, non vorrei essere il ricco che il Signore lascia a mani vuote.

Il Signore in questo Vangelo non ci vuole punire, ma ricompensare invitando a riconoscere e a rimettere al centro le cose essenziali, ciò che conta veramente.

Ci dice che saranno gli umili ad essere innalzati, da speranza e ci libera questo pezzo di Vangelo!

È molto bello pensare che il Signore innalzi le suore, i volontari, tutti gli umili, è consolante.

Ma perché sono dovuta venire fino a qua per trovare l’umiltà? Anche a Reggio Emilia ci sono tante persone umili, basta cercarle!

Io non sono venuta qui per capire qualcosa sulla mia vita o cercare, ma semplicemente per conoscere questa realtà e dove tutto è cominciato. È vedo che è tutto molto bello!

Ora riesco più a ringraziare, a riconoscere e ad avere la consapevolezza delle cose belle che vivo, come l’opportunità di questo viaggio. La domanda che mi pongo è: Maria ha avuto paura? E anche: come ha fatto a riconoscere che quello era il suo ruolo, la sua missione.

Ho tanta paura ad affidarmi. Cosa vuole il Signore da me? Cosa vuole che io faccia?

A volte mi chiedo cosa ci faccio qui? Oggi sento di aver fatto la cosa giusta, ieri pensavo che era meglio tornare a casa, cosa devo fare?

Ma qual è la mia casa? Cosa devo chiamare casa? Casa di qua, casa di là, non ci capisco più niente!

Quanto è difficile farsi aiutare come Elisabetta da Maria! Ho provato cosa vuol dire essere incinta e aver bisogno di aiuto anche solo per allacciarsi le scarpe. Ma quanto è difficile chiedere aiuto per me?

Ci siamo posti tante domande che forse solo all’apparenza sono alternative…

Ha senso continuare a seminare anche se con fatica oppure ha senso non aver più speranza e pensare che sia un paese solo per volontari?

Basta la vocazione o bisogna anche tener conto dei limiti che i volontari che operano in Madagascar ci hanno mostrato quando non vedono i miglioramenti? Come ad esempio operatori che rubano medicinali, popolazione che non capisce il tuo lavoro, malgasci stipendiati che non fanno il loro lavoro…

I volontari si vede che possono provare anche loro rabbia, che diventa spesso rassegnazione… ma come fanno poi a ripartire con umiltà? Hanno davvero tanta tenacia!

È un bisogno nostro quello di vedere subito i risultati oppure ha un senso?

Bisogna concentrarsi solo sulle potenzialità o anche considerare le possibilità qui per i malgasci?

Bisogna denunciare queste condizioni oppure accettare questa realtà così com’è?

Ha senso fare un confronto con la nostra realtà oppure no?

 

Ma alla fine di chi stiamo parlando? Di noi? Di loro? Di tutti?

Abbiamo visto cose che fanno ripensare alla nostra storia, che ci portano a ritoccare la nostra visione e le nostre aspettative, capire i nostri limiti, mettere in discussione la nostra visione.

Ad alcune abbiamo provato a dare una risposta, ma ve le offriamo così aperte, perché la ricerca non finisce mai…

Francesco, prima di continuare il suo percorso con sua moglie Silvia insieme a Don Olivier, ci aveva consigliato di continuare a mettere sul tavolo tutte le emozioni che avremmo provato da quel momento in avanti e allora noi… abbiamo continuato e continuiamo.

Sappiamo che il Signore è lì, sempre con noi, che conosce tutti i nostri pensieri, le nostre emozioni, le nostre domande e quindi  glieli affidiamo. Gli chiediamo anche di non smettere di farci interrogare sul senso della nostra missione qui, oggi, su questa terra e di permetterci di leggere i cartelli stradali che pone sulla strada della vita di ognuno di noi.

I campisti del Madagascar alla ricerca

Sul coltivare l’alleanza con la terra

Veglia diocesana per la custodia del Creato

“In questa Giornata Mondiale di Preghiera per la cura del creato, che la Chiesa Cattolica da alcuni anni celebra in unione con i fratelli e le sorelle ortodossi, e con l’adesione di altre Chiese e Comunità cristiane, desidero richiamare l’attenzione sulla questione dell’acqua, elemento tanto semplice e prezioso, a cui purtroppo poter accedere è per molti difficile se non impossibile”. Si è aperta con questa esortazione di Papa Francesco la Veglia diocesana per la Custodia del Creato celebrata sabato 1° settembre nella Chiesa di Masone, a Reggio Emilia, e presieduta da don Emanuele Benatti.
L’acqua ha un ruolo fondamentale nel creato, è un bene essenziale per tutti e invita a riflettere sulle nostre origini. In questo hanno aiutato le suggestive immagini tratte dal film “L’albero della vita”, preparate per l’occasione dalle comunità dell’Unità Pastorale “Beata Vergine della Neve”, insieme ai segni e ai testi consegnati ai tanti convenuti. Tra questi, la lettera “Caro San Cristoforo” (martire venerato soprattutto da pellegrini e viaggiatori per superare difficoltà naturali di vario genere) scritta circa 30 anni fa da Alexander Langer (1946-1995), ecologista, giornalista, pacifista e politico che operò soprattutto nel parlamento europeo, vivendo l’inizio di quella deriva culturale e politica dell’Europa che oggi si vede pienamente esplicata. I suoi scritti, le sue campagne hanno anticipato i temi e le intuizioni che si trovano nell’Enciclica Laudato si’.

Il professor Matteo Marabini durante la veglia

A testimoniarlo è un suo caro amico, il prof. Matteo Marabini, insegnante di storia e filosofia e fondatore dell’Associazione “La Strada”, operante socialmente nel territorio bolognese.

Intervenendo alla Veglia, Marabini ha ripreso il testo scritto da Langer quale parabola della “conversione ecologica” necessaria, per leggerlo alla luce degli eventi che oggi sconvolgono l’umanità, mettendo in guardia dalla rimozione dei cambiamenti climatici in cui facilmente inciampiamo. “Sotto i nostri occhi può succedere di tutto, ma nulla scalfisce le nostre certezze di ordine economico, politico, sociale e la nostra profonda adesione al sistema”. Marabini, si è poi soffermato su tre eventi “macigni” avvenuti il mese scorso: il 1° agosto è stato dichiarato come the Earth Overshoot Day, il giorno oltre il quale non si può andare, perché esaurite le risorse prodotte dal pianeta per l’intero anno. Quelle che consumiamo fino al 31 dicembre le prendiamo in prestito al futuro, indebitando le generazioni che verranno dopo di noi. “Il secondo macigno è la tragedia del ponte di Genova, questo mostro architettonico sporgente sulle case… ‘per non opporsi al progresso’… e ora saranno distrutte. Prima di ricostruire il ponte bisognerebbe pensarci due volte. Con la situazione che stiamo vivendo, tra qualche anno non ci potremo più permettere questo tipo di viabilità, di spostamenti. Il terzo macigno è la vergognosa esplosione dell’ostilità e della deumanizzazione rispetto a chi fugge, anche dai cambiamenti climatici, con un crescendo di volgarità e d’illegalità”.

Diventano allora di grande attualità le parole rivolte da Langer a San Cristoforo, che rinunciò a servire l’esercito imperiale per usare le forze di cui era dotato nel traghettare i viandanti in difficoltà da una riva all’altra di un pericoloso fiume, pensando alla traversata che la nostra civiltà oggi è chiamata a compiere. “Non è solo un problema di disinformazione, cultura, superficialità – ha detto Marabini – . E’ in gioco il nostro desiderio, malato, insofferente ad ogni limite segnato dalla dismisura, dal possesso, vorace, predatore. La conversione ecologica è un processo di guarigione e di rigenerazione dell’uomo interiore, per orientare la propria istintività e accettare la forza vivificante del limite”. Scriveva Langer che “il cuore della traversata che ci sta davanti è probabilmente il passaggio da una civiltà del ‘di più’ a una del ‘può bastare’ o del ‘forse è già troppo’…” per invertire la corsa di una ‘crescita’ diventata autodistruttiva. “E sono lì a documentarlo l’effetto-serra, l’inquinamento, la deforestazione, l’invasione di composti chimici non più domabili e un ulteriore lunghissimo elenco di ferite della biosfera e dell’umanità. Bisogna dunque riscoprire e praticare dei limiti”.
Scrive Langer: “Sinora si è agito all’insegna del motto olimpico “citius, altius, fortius” – più veloce, più alto, più forte – che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l’agonismo e la competizione non sono la mobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana ed onnipervadente. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in “lentius, profundius, suavius” – più lento, più profondo, più dolce -, e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso”.

“Per entrare in questa conversione ecologica – ha osservato Marabini – bisogna riconoscere che c’è un debito da saldare, che c’è da praticare una giustizia restitutiva. Rispetto al fenomeno migratorio, noi non possiamo dire: aiutiamoli a casa loro! Siamo noi i predoni dell’Africa che affamano milioni di poveri, come ha detto l’Arcivescovo di Palermo. E l’assalto all’Africa in atto oggi è molto più rapace del colonialismo di 150 anni fa. E’ necessario rimediare a questo, che non significa fare beneficienza, ma giustizia”.
“Per non precipitare nella barbarie, per diventare umani e non doverci vergognare dei nostri giorni c’è un altro passo di liberazione da compiere: il diritto-dovere di resistenza dei cittadini quando lo Stato viola la libertà e umilia i diritti umani” ha aggiunto Marabini rifacendosi alla proposta che Giuseppe Dossetti fece durante la Costituente e pensando a tante persone che oggi, soccorrendo chi è nel disagio, sfidano provvedimenti contro la solidarietà e l’umanità.
L’invito finale di Marabini è stato quello a scegliere la vita, come scritto nel Libro del Deuteronomio (30, 15-16.20): “Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male… Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore, tuo Dio, obbedendo alla sua voce…”.

photo credit: diegotapiamontaner Nebulosa de la Cabeza de bruja via photopin (license)

Manakara, una missione comune

Qui a Manakara abbiamo frequentato la lezione di sport del lunedì con gli ospiti dell’ospedale psichiatrico di Ambokala.

Ginnastica con gli ospiti dell’ospedale di Ambokala

Lorenzo ci ha saputo accompagnare con leggerezza di cuore e ironia facendoci muovere i muscoli, non solo fisici, in sintonia.

 

 

 

 

 

Insieme a Giulia e Chiara abbiamo costruito ponti e strade di speranza, abbiamo respirato il profumo dell’Oceano Indiano, ricevendo così il grande regalo di poter fermarci a contemplare la bellezza dell’infinito e della creazione.

 

Panorama dell'Oceano Indiano a Manakara

 

La Confiserie di Manakara

Abbiamo assaggiato le marmellate vendute nel negozietto della diocesi di Reggio a Manakara, dove si commerciano caffè, saponi, olii essenziali, miele e tanti altri prodotti, frutto del lavoro di donne, altrimenti disoccupate.

 

 

 

 

 

 

 

Abbiamo visitato l’ufficio e il centro culturale di RTM. Ora ci lavorano Enrico e Tania che ci hanno parlato delle difficoltà che incontrano nel provare a cambiare le cose in profondità e nel ricevere finanziamenti per continuare a lavorare con le autorità malgasce su temi di grande importanza.

Abbiamo avuto la possibilità di accompagnare i volontari di RTM a fare una sensibilizzazione sulla cura della malattia della lebbra in un villaggio qualche chilometro più in là, dove ci siamo fatti prendere dai sorrisi e dalla gioia contagiosa dei bambini incontrati.

Giochi con i bambini nel villaggio

Abbiamo conosciuto Luciano che ci ha parlato dei suoi progetti e della sua vocazione, che ci ha trasmesso il senso dell’esserci sempre per gli altri, con umiltà, in silenzio e nell’ombra.

Abbiamo visitato quell’oasi di pace della Ferme di Analabe‚ un posto dove ognuno può dare il proprio contributo, dove può ritrovare il contatto con la bellezza della natura e dove c’è spazio di recupero, di progettazione e di incontro.
Proprio qui, una volta all’anno viene organizzato un campeggio di tre giorni con i ragazzi dei vari distretti della parrocchia di Manakara che‚ finalmente‚ possono stare insieme ed essere bambini, imparando attraverso il gioco. E’ stato un privilegio aver condiviso, anche solo per un giorno, questo momento.

La chiesa costruita da don Giovanni Ruozi con l’aiuto della diocesi di Reggio

Abbiamo visto la luce del Signore nella chiesa nuova di Gesù Misericordioso costruita con tanto amore per volere di Don Giovanni. Nonostante la grandezza della chiesa, ci racconta che alla domenica si può far fatica a trovare un posticino per stare insieme alla comunità e al Signore.
Mentre ci parlava, potevamo sentire la sua gioia, il suo averci messo anima e corpo, la sua umiltà e obbedienza per la preparazione del suo ritorno in Italia.

Presto, anche Damiano avrà la possibilità di iniziare il suo percorso lì. Gli mandiamo un forte e caloroso abbraccio, ringraziandolo per il suo essere sempre pronto a fare e per aver condiviso con noi momenti del campo molto forti che ricorderemo con il sorriso sulle labbra.

Infine, pensavamo che…
forse le persone che abbiamo incontrato qui hanno un filo rosso che le collega, una missione comune: camminare mano nella mano con il Signore, facendo rifiorire persone, piante, animali, ridando la vita, essendo sempre alla ricerca, provando a crescere e maturare, tentando poi di accompagnare anche gli altri in questo cammino.
Ringraziamo il Signore per averci dato la possibilità di fare questi incontri che ci interrogano, ci smuovono e ci lasciano tanta speranza.

Il panorama di Ampasimanjeva

Ampasimanjeva: essere ospiti…con una parte del cuore rimasta là

Si è chiuso un piccolo ed importante capitolo di questo lungo percorso che a noi sembra‚ però, troppo corto.
Il 18 agosto abbiamo dovuto salutare Ampasimanjeva. Inutile dire che una parte del nostro cuore è rimasta là.
Nel viaggio per raggiungerla, percorrendo al buio quell’ora di strada sterrata con buche che sembravano voragini, pensavamo di essere arrivati alla fine del mondo.
Appena arrivati a destinazione, ci siamo seduti a tavola in fretta e furia “perché poi bisogna spegnere il generatore!”. Infatti, la corrente elettrica ad Ampasimanjeva non c’è. Per l’ospedale e le altre stanze antistanti dei dipendenti viene tenuta accesa attraverso un gruppo elettrogeno solo un’oretta o due al giorno dopo il tramonto per permettere alle persone di lavarsi e cucinare, poi viene spenta e risparmiata per eventuali urgenze in ospedale.
Ci siamo accorti che le cose al buio acquisivano un’altra fisionomia, gli altri sensi si espandevano e si sviluppavano maggiormente. Ci siamo ritrovati ad apprezzare quel fascio di luce della torcia prima di addormentarci, che offriva un po’ di senso di calore. A Manakara è stato strano riabituarsi alla luce elettrica, è come se la vista regnasse di nuovo sovrana in ogni situazione. Ci siamo chiesti: sarà forse per questo che noi diamo così importanza all’apparenza?

I bambini giocano a calcio nel campetto fangoso di Ampasimanjeva

I bambini giocano a calcio nel campetto fangoso di Ampasimanjeva

È stato emozionante sentire il profumo dell’aria pura, non inquinata, di aperta campagna, assaggiare i sapori dei cibi che le suore ci cucinavano con tanto amore, udire i rumori della natura mentre ci ritrovavamo alla sera in cerchio sotto alla veranda dei volontari per giocare a lupus, stringere le manine calde e un po’ fangose dei bambini che tutti contenti ci hanno accompagnato a fare il giro del villaggio, ascoltare le parole di preghiera, di confronto e di condivisione delle volontarie che hanno deciso di dedicare un anno della loro vita lì, soltanto per esserci.

Quello che si può notare ad Ampasimanjeva è il collegamento fondamentale che esiste fra tutti i progetti della missione presenti: le persone malate di tubercolosi non sono persone escluse, ma sono parte di una comunità. Giocano a calcio con i bambini della scuola e i loro figli frequentano insieme ad altri proprio quella scuola. Ci chiedevamo: tutto non parte forse dall’educazione scolastica?

La Ludoteca “Papillon“ è una scuola libera e gratuita non riconosciuta ufficialmente. Inizialmente, era nata per permettere ai figli dei malati di tubercolosi, che devono sottoporsi ad un trattamento di due mesi in ospedale, di avere continuità nella formazione. Successivamente, si è poi deciso di aprirla a tutti i bambini del villaggio che hanno più di tre anni e che non possono permettersi di andare a scuola.
Ci è sembrata un’apertura che significa vera accoglienza e giocando con tutti quei bambini si può percepire la loro gratitudine nel sentirsi accolti e nell’avere qui un punto di riferimento.

Le scuole statali e private sono tutte a pagamento e pochi genitori possono permettersi di mandarci i loro figli.
Il tasso di analfabetismo, ci riferiscono i volontari, è del 78%. Qui, oltre a Madame Beatrice che la gestisce, c’è Giulia, che con il suo sorriso accoglie con gioia ogni bambino.

Un bimbo con un cellulare ad AmpasimanjevaGiulia ci ha raccontato due episodi: una volta si era un po’ arrabbiata con un bambino che sembrava molto motivato, ma veniva poco a scuola. Allora, glielo aveva fatto presente e lui aveva risposto che non poteva esserci sempre non perché non volesse, ma perché doveva andare a far pascolare gli zebù.
L’altro episodio che ha condiviso riguarda il venerdì alla Ludoteca. Durante quella mattinata si guarda sempre insieme un film e molti bambini, che vengono a scuola proprio per imparare e sono molto motivati oppure che vengono da molto lontano a piedi o in lakana (canoa), non si presentano perché “mi sembra solo di perdere tempo”.

Ilaria con i bimbiPresto sarà il turno di Ilaria, con la quale abbiamo condiviso parte del nostro viaggio e che affidiamo con gioia al Signore.

 

 

 

 

L’altro progetto del CMD ad Ampasimanjeva che abbiamo avuto l’occasione di conoscere è l’ospedale.

L’esterno dell’ospedale di Ampasimanjeva con malati e parenti in attesa

È uno degli ospedali di riferimento del sud del Madagascar, in cui i pazienti hanno la possibilità di pagare le cure in base alla loro disponibilità economica e in ogni caso sono sempre garantite.
Chiara ci ha fatto fare un giro lungo ed approfondito di tutti gli spazi fisici ed emotivi presenti. Ci ha raccontato con passione alcune storie di malati che l’hanno colpita: storie di donne che muoiono ancora e spesso di parto, storie di presunte vittime di violenza, storie di persone con infezioni così grandi che ormai invadono tutto il corpo, storie di donne che tengono i loro figli appena nati con loro già sotto le coperte, storie di padri che muoiono e che lasciano una figlioletta che ha come unico punto di riferimento la scuola, storie di bambini che si presentano senza un arto, e tante tante altre. Sentiamo il peso di queste storie, la fatica di raccontarle e anche di accettarle.
Chiara ci ha spiegato anche che la gente ha paura di venire in ospedale perché gira voce che “in ospedale si muore“. Ci ha detto anche che questo pregiudizio è comprensibile perché spesso le persone arrivano in ospedale all’ultimo momento, all’ultimo stadio della malattia, quindi come ultima spiaggia prima di morire e quando ormai è troppo tardi.
Sarà forse che il centro della loro vita è la sopravvivenza quotidiana, quindi il lavoro e i bisogni primari? Sarà per questo che non c’è tempo e spazio per la riflessione, per pensare a cosa fare e per prendersi cura di sé e degli altri?
A questo proposito ci è stato riportato un detto malgascio: “fai tanti figli, perché si sa già che alcuni moriranno.”
Mentre eravamo tutti seduti di fronte all’ospedale abbiamo visto passare una persona deceduta in una barella fatta di legno e ci è subito apparso chiaro che la morte fa parte davvero della vita, ma è così tanto difficile da accettare e affidare la nostra vita e quella degli altri al Signore. Capiamo anche che le emozioni di fronte ad un evento così traumatico come la morte vengono espresse in modo differente in base ai modelli culturali di riferimento: qui, ad esempio, non va bene piangere e i bambini vengono sgridati se piangono.

Abbiamo dato un’occhiata veloce alle ‘cucine’, spazi predisposti per i familiari dei malati: nella stessa stanza questi preparano da mangiare e dormono su stuoie per terra. Ogni malato, infatti, si porta dietro tutta la famiglia e a turno ogni componente si prende cura della sua assistenza di base. Entrando in una stanza dell’area adulti, ci è stato fatto notare che qui le persone sono fortunate perché a tutti è garantito il materasso sul letto, cosa che negli altri ospedali non avviene e solo chi riesce a permetterselo lo noleggia, altrimenti utilizzano una stuoia sopra alla rete. Poi, siamo stati nell’area materno-infantile e nella sala parto, dove un gran numero di donne incinte e malate formavano una lunga fila tranquilla e paziente.

La sala operatoria dell’ospedale di Ampasimanjeva

Infine, dopo il dispensario dei medicinali e il laboratorio per le analisi del sangue, finalmente la sala operatoria, che è l’unico ambiente più o meno a norma secondo la nostra logica occidentale per quanto riguarda la sterilità.

È davvero difficile descrivere a parole le grandi differenze rispetto agli ospedali italiani e provare a trovare un senso a tutta questa sofferenza e al modo di gestirla qui, in Italia e ovunque.

Gran parte dei mezzi che sostengono tutto l’ospedale sono i fondi inviati dalla Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla, che derivano da donazioni, e l’amore e la cura dei volontari, delle suore malgasce, del signor Giorgio Predieri e dei pochi dipendenti, rigorosamente tutti malgasci, che ci lavorano quotidianamente. Fra questi, il Dottor Martin è davvero uno dei punti di riferimento principali, medico chirurgo ginecologo, formatosi prima ad Antananarivo e poi in Italia e dalla capitale trasferitosi qui con tutta la famiglia, anche lui in missione in questa piccola realtà. Chiara ci ha raccontato che lui gioca e allena nella squadra locale di basket.

Il dottor Martin, direttore dell’ospedale di Ampasimanjeva

Ci hanno colpito immensamente le sue parole: “giocare a basket è come lavorare in ospedale, se fai canestro, se riesci a guarire un malato o fare un’operazione che va poi a buon fine, fai centro e sei contento!”. Ci ha fatto un po’ commuovere tutti la sua pace interiore, il suo impegno, la sua sensibilità, il suo prendersi a cuore, il suo caricarsi delle responsabilità, la sua decisione di non andare in pensione per continuare ad operare: è davvero un esempio di grande umiltà.

Un’ altra attività di cui si occupano i volontari è quella con le persone malate di tubercolosi, che vivono insieme ai loro familiari in strutture separate ma vicine all’ospedale, anche se non sono più contagiosi una volta iniziata la terapia.

Giulia e Giorgia ora si alternano tutte le mattine per fare un piccolo momento con loro, dando loro le medicine e provando loro la febbre per avere un monitoraggio costante dell’andamento della loro guarigione. Osservando le loro cartelle ci hanno colpito i dati riguardo al loro peso e l’età: 25-35 chili e alcuni anche molti giovani. Sono una piccola e accogliente comunità, ridono e scherzano fra loro e ci hanno fatto sentire tanto accolti. C’è un ‘capo’ che coordina un po’ il tutto ed è un punto di riferimento per tutti i questi malati. Quello attuale è un ragazzo giovane con un sorriso smagliante e con la battuta sempre pronta.

La sala di attesa dell'opsedale

Ci viene quindi ancora da chiederci quanto e quale posto occupa la malattia nella mente e nel cuore delle persone che abbiamo incontrato.

Lasciamo per ultima una frase che un anziano signore in un banchetto ad Ampasimanjeva ha detto a Giulia, mentre ci vedeva passare nel villaggio, e che lei, commossa, ci ha tradotto ringraziando il Signore: “sono arrivati degli ospiti, che bello!”. Ed è stato proprio un grande insegnamento di ospitalità e di accoglienza: per una volta al posto della parola ‘vazaha’ (stranieri), c’è stata donata la parola ‘ospiti’.

I campisti ampasimanjevi 2018

1 settembre 2018 nella chiesa parrocchiale di Masone alle 21. Interverrà Matteo Marabini dell'associazione La strada

Coltivare l’alleanza con la terra

Coltivare l’alleanza è l’invito alla preghiera e all’azione che ci rivolge la CEI. Il prossimo 1 settembre sarà la Giornata Nazionale del Creato.

Ricordando l’incoraggiamento che arriva dall’Enciclica “Laudato si’”, i Vescovi richiamano a “un’attiva opera di prevenzione”, attenti a ritrovare la “prospettiva pastorale” “nella presa in carico solidale delle fragilità ambientali di fronte agli impatti del mutamento, in una prospettiva di cura integrale. Occorre ritrovare il legame tra la cura dei territori e quella del popolo”.

Scarica il Sussidio della CEI dove trovare materiale per la formazione e l’animazione liturgica per la Giornata del 1° settembre e tutto il mese dedicato alla Custodia del Creato

 

Bambini, bambini e ancora bambini

Bambini, bambini e ancora bambini, bambini ovunque andiamo.
Qui la vita inizia in ogni angolo.

 

 

 

 

 

 

Bambini che ci sciolgono con i loro sorrisi, un po’ sdentati, ma tanto lucenti.
Bambini che, come ci racconta Giulia, fin da piccoli ad Ampasimanjeva sono spesso chiamati a tener dietro agli zebù, ad avere il ruolo di piccoli pastori perdendo così la possibilità di frequentare la scuola, di viversi l’infanzia.

 

 

 

Bambini curiosi che, appena ci vedono, con un po’ di vergogna tentennano fra lo stare e lo scappare, ma quando decidono di rimanere, sentiamo la loro accoglienza vera e sincera, come un immenso abbraccio anche senza sfiorarci.

Una bimba con il fratellino sulla schienaBambini che portano sacchi pesanti sulla loro testolina, che tengono sulla schiena il fratellino o la sorellina, due cuori vicini, che si toccano, uno che impara presto cosa significhi essere responsabile e l’altro che si deve affidare.
Bambini che ci seguono ovunque andiamo, che corrono come forsennati dietro al nostro pulmino, pur di non perdersi il saluto di un “vazaha” (straniero).

 

 

 

 

 

Bambini colorati nel loro vestito migliore per l’occasione della messa, che sanno a memoria le canzoni di chiesa perché sono le uniche che possono ascoltare.
Bambini silenziosi nel nostro momento di condivisione con Don Simone ad Anorombato, il giorno prima di ferragosto, che ci osservano prima con occhi stupiti poi ci scrutano uno ad uno per comprendere cosa stia succedendo, condividendo con noi semplicemente standoci accanto.

Bambini che non si sa neanche se nasceranno, che potrebbero morire dopo i primi battiti, che hanno un pancione gonfio come un palloncino, pieni zuppi di fango, con una sola ciabatta, quasi tutti con i piedi scalzi, con le treccine o con i codini, che si lavano nel fiume.

Bambini che si divertono come pazzi a fare i bans con Chiara, che adorano le foto, che non vedono l’ora di vedere finalmente la loro espressione riflessa come su uno specchio, che ridono come matti appena mostriamo loro la foto appena scattata, che vorrebbero essere riconosciuti, sognati e ricordati.
Bambini che, ai vari mercatini che incontriamo, rimangono lì tutto il giorno con i genitori, ad aspettare, a sgranocchiare, a osservare, a succhiare da un seno offerto gentilmente da mamme stanche e segnate.

 

Bambini che calciano un pallone composto da stracci, che rincorrono Roberta e Martina, che assaltano Damiano, che farebbero qualunque gioco insieme a noi.

Stasera, prima di dormire, sotto questo cielo zuppo di stelle nell’emisfero opposto, pensiamo solamente che tutti noi siamo stati bambini e che è proprio un dono grande poter intrecciare la nostra vita con quella di questi bambini.

I campisti malgasci – Ampasimanjeva 18/08/2018

Dal Madagascar – ragazzini al mercato, Giulia Farri e Cela’

Luglio 2018

Ciao a tutti!
Questo mese le parole faticano un po’ ad uscire quindi mi affiderò anche stavolta ad una persona,
precisamente un ragazzino, raccontandovi la sua storia, un po’ meno divertente di quella di Ricot!
I due bimbetti che vedete in foto sono Iabelen (il più piccolino) e Celà!

Celà, il protagonista di questa storia, con il suo amico Iabelen

Il “protagonista” di oggi è Celà.
Ha 14/15 anni, nemmeno lui lo sa, strano eh?! Stando qui però scopri che è una cosa usuale non sapere la propria età, spesso anche i genitori non lo sanno e più l’età avanza più è difficile avvicinarsi
alla presunta cifra esatta!
La prima volta che ho incontrato Celà ero
con Enrica al mercato, a comprare il riso per Ambokala, si sono avvicinati lui e un altro ragazzotto sordo-muto per chiederci qualcosa da mangiare, Celà non parlava, faceva solo gesti per farsi capire da noi e dall’amico, fingeva di essere muto anche lui, un po’ per comodità e un po’ per comunicare con il suo compare!
Da quel momento Celà è entrato a far parte di quelle persone che vedi una volta e non ti scordi mai, ha iniziato a venire al centro ragazzi di cui si occupa Lorenzo in cui io faccio servizio al mercoledì pomeriggio, piano piano ho iniziato a conoscerlo un po’ meglio.
Celà fa parte di un gruppo di 5/6 ragazzetti che dorme e vive al mercato, cosa che per la maggior parte dei malgasci è normale, ma che per me non lo sarà mai, faccio fatica a farmene una ragione, bambini da soli al mercato, senza niente se non i pochi vestiti che hanno addosso.
Celà è un ragazzo dolcissimo con un forte bisogno di attenzioni e non manca una buona dose di furbizia come in ogni quattordicenne del mondo.
Un paio di settimane fa è venuto a cercarci a casa perché stava male, aveva la varicella e abbiamo iniziato a curarlo. Per cinque giorni ogni mattina ci incontravamo e gli portavo le medicine della giornata e piano piano è guarito. Una delle ultime mattine ne abbiamo approfittato, l’ho portato con me al centro d’ascolto di Diana e abbiamo cercato di conoscere un po’ la sua storia per provare ad aiutarlo, cercare di capire se aveva ancora un famiglia, se era stato abbandonato o se era scappato. I suoi genitori si sono separati, la mamma vive con un altro figlio e il suo nuovo marito che a dire di Cela è cattivo, lo tratta male e non lo vuole in casa.
Il padre, anche lui risposato con 5 figli, lo abbiamo trovato e siamo riuscite a parlargli…non mi è piaciuto, io non riesco a fare queste cose senza inevitabilmente affezionarmi alle persone, in particolare ad un ragazzino solo che ha un padre che si mette a ridere quando gli dici che il figlio è stato molto malato ed è dovuto venire a cercare noi perché non sapeva dove trovare la sua famiglia e che se gli chiedi se è disposto a riprenderlo con lui se si comporta bene ti risponde “No, lui non va bene!”.
Come?! È tuo figlio, lo hai messo al mondo tu, come fa a non andare bene?! Come fanno lui e la madre a dormire di notte sapendo che loro figlio dorme al mercato da solo, senza nulla e al freddo, che ruba per rivendere ed avere i soldi per riuscire a mangiare!
Abbiamo sperato per un attimo di riuscire a togliere un ragazzino dal mercato, dargli almeno una casa ed un tetto sotto cui dormire ma non è così semplice, stiamo valutando altre opzioni ma si vedrà perché Celà deve essere il primo a voler far qualcosa per cambiare la sua vita perché un’altra cosa mi sconvolge abbastanza: parlando con questi ragazzi capisci che loro al mercato stanno “bene” hanno scelto di farlo, nel limite del possibile, sono ambientati e si sono creati una famiglia tutta loro, ovviamente i lati positivi per loro sono tanti: vivere senza regole, senza orari, senza dover studiare o lavorare e stare tutto il tempo con gli amici giocando e scorrazzando in giro; diventa quindi difficile rinunciare a tutto questo e andare magari in una comunità in cui si studia e si deve stare a delle regole, devono proprio essere loro a volerlo, tu non puoi fare altro che proporglielo e cercare di farli
ragionare sul loro futuro.
In tutta questa storia abbastanza triste, diciamolo, c’è una cosa che mi fa sorridere e che mi piace tantissimo: questi ragazzi sono così legati da essere diventati una vera e propria famiglia, quando Celà aveva la febbre gli sono stati dati dei vestiti pesanti per stare un po’ più coperto, i suoi vecchi vestiti dove sono finiti? Il giorno dopo, dopo averli lavati, erano addosso ad uno dei suoi amici del mercato che prima aveva dei vestiti completamente distrutti e da buttare, anche quando è ora di mangiare, si incontrano e mettono insieme quello che ognuno di loro ha trovato, dal cibo ai soldi che la gente gli dà e si dividono tutto per poter mangiare qualcosa tutti!
Da questo posso proprio dire che è proprio chi ha meno che condivide di più e spesso ti insegna di più! Non sono contenta del risultato, ma ho imparato tanto dalla storia di Celà e so che sarà una di quelle storie che non mi scorderò mai e che mi voglio portare a casa!
Mi sembra giusto condividerla anche con voi sperando che arrivi anche solo una briciolina di quello che ho provato vivendola!
Giulia