Agli spiriti belli senza posa
“Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.”
Alda Merini.
Saltello, saltello, gracido, emetto un verso rauco intermittente, sopratutto di notte. Faly mahafantatra anareo aho (contenta di conoscervi), io sono una piccola rana malgascia, color arancione a pois, il mio nome è Rakoto Colgate.
Vivo in Madagascar precisamente a Manakara, a sud-est sulla costa orientale. Sono una rana piccolina, ho appena un anno. Il giardino in cui vivo è molto grande, sono circondato da piante terapeutiche, fiori bizzarri e colorati, da melanzane, pomodori, ananas, papaje, angurie e tanti altri frutti. Poi in questo giardino c’è anche una casetta in cui ci sono degli animali particolari, in testa hanno una cresta rossa ruvida, sotto il collo i bargigli, hanno il becco ed occhi rotondi, si muovono rette con il petto all’infuori, pensate che peculiarità, le loro zampe sono corte ma robuste costituite da quattro dita, di cui tre rivolte in avanti e una all’indietro. Ma non sono gli unici animali stravaganti che vivono con me, perché sono presenti delle creature chiamate “esseri umani” che non sono a pois o neri e arancioni , sono bianchi, bianchi, pallidini e vengono dall’Italia, chissà di che coloro sono le rane lì . All’inizio mi facevano un po’ paura però adesso mi sono abituato, anche perché ogni tanto esploro la loro casa molto grande e mi diverto. Io ho seguito i lavori, l’ho proprio vista nascere e costruire, questa casa ha la mia età. Adesso siamo una comunità variopinta, pian piano si sta popolando, oltre alle mie 16 sorelle rane, 8 fratelli ranocchietti, ci sono 5 gechi di un verde smeraldo vivace , farfalle e uccellini di passaggio, scolopendre, formiche, gli extra terresti umani bianchi di cui vi ho parlato prima, ma anche tanti “esseri umani” malgasci che si prendono cura del giardino, vengono a pregare e ad imparare l’italiano, insegnano il malgascio e soprattutto “operano” gli italiani quando le piccole pulci penetranti trovano rifugio sotto le loro unghie.
Ho scoperto che anche gli “extra terrestri” bianchi, hanno dei nomi e ognuno ha una storia diversa. Adesso ve li presento. Ci sono 2 Mopera : Don Simone, Don Luca, missionari Fidei Donum qui a Manakara. Anche noi abbiamo 2 preti, però siamo Raniani non Cristiani, tranquilli andiamo d’accordo con tutti coloro che praticano altre confessioni religiose.
Invece da poco sono arrivate Camilla, Sara, Giada, Anna Maria, volontarie mandate dal centro missionario di Reggio Emilia.
L’altro giorno mi stavo annoiando, quindi, quando Camilla stava per uscire con la bici, l’ho seguita e con estrema eleganza ho eseguito un salto carpiato, intrufolandomi dentro al suo zaino. All’inizio non sapevo dove stessimo andando, poi mi sono orientato, eravamo sulla strada che porta ad Ambokala. Percorrerla in bici ci si mette di meno che ad andare saltellando, non fermandoti,
pedalando, puoi osservare contemporaneamente la frenesia ma anche la staticità della gente: chi cammina e trasporta “zavatra” e dirige altri animali buffi, gli zebù con la gobba, e chi sdraiato vende frutta, verdura, dolcetti, vestiti ,carne e tante altre cose. Dopo più o meno una ventina di minuti finalmente arriviamo al villaggio terapeutico di Ambokala, è un dei luoghi in cui Camilla presta servizio, ma attenzione non è l’unico posto, ogni tanto si dimentica di dirlo e quindi Don Luca la sgrida, l’altro servizio è aiutare all’oratorio della parrocchia “Ambalapasoavana” vicino a casa nostra. Ci sono già stato in oratorio e ho notato che i pischelli saltano in alto quasi quanto me. Per ore sono capaci di saltare un filo elastico utilizzando una certa tecnica tutta loro, elegante ed efficace.
Invece il villaggio terapeutico di Ambokala é la prima volta che lo visito. A prima vista sembra una fattoria perché all’accoglienza ci sono le capre dell’infermiera (da poco si è anche trasferita Sofia la capra di Mopera Simone). Sono presenti anche gattini, galline, cani, anatre e oche che scorrazzano indisturbate. Poi piano piano riesco ad uscire dallo zaino di Camilla, e finalmente vado in esplorazione, osservo altri animali ed incontro gli “esseri umani” e i loro famigliari che vengono qui per curarsi.
Mentre rincorro, ovviamente sempre saltellando, un moscerino bello paffutello, mi scontro con un altra “extra terrestre” umana italiana con sembianze ormai malgasce. Si chiama Enrica, ed è lei che si é accorta dell’esistenza di questo posto. In tutti questi anni con semplicità, fatica, naturalezza e creatività lo ha reso “vivo”, famigliare e accessibile a più persone possibili.
Enrica e tutti i dipendenti malgasci che lavorano al VTA e i volontari di passaggio cercano di dimostrare che l’ascolto, un rapporto paritario e sincero, dedicare tempo ed energia alla persona possono aiutare alla convivenza, alla guarigione, alla cura della malattia mentale e creano una rete sociale, delle amicizie e un attenzione reciproca tante volte molto faticosa. Ed è importante permettere ai malati di curarsi con psico-farmaci che avrebbero costi troppo elevati per loro, anche se alcuni farmaci per la salute mentale sono ancora oggi inesistenti qui in Madagascar, non essendoci l’autorizzazione ad importarli.
Appena mi allontano dall’Enrica sento delle voci, le seguo e mi ritrovo nella casetta delle attività. In questo momento Madame Mamma di Jan (l’assistente sociale) sta svolgendo il laboratorio di Fehiara, che consiste nel creare borse e porta oggetti, lo sta insegnando ai malati. Ci sono tante altre attività che si svolgono: il laboratorio di cucito, di Rafia, sport, consapevolezza corporea, falegnameria, orticoltura e infine intreccio. I laboratori sono gestiti da professori esterni, tutti personaggi molto interessanti e peculiari. Camilla mi ha raccontato che qui al VTA
(Villaggio Terapeutico Ambokala), si sono curate e sono passate tantissime persone in questi anni, anche diversi volontari, ed ognuno a suo modo ha lasciato un piccolo pezzetto di sé ed ha passato il testimone al successivo. Per esempio il laboratorio di consapevolezza corporea lo curava una ragazza volontaria italiana, quando è ritornata in Italia ha spiegato all’assistente sociale malgascia in cosa consisteva ed oggi lo porta avanti lei. Penso sia molto importante dare continuità, stimolare e responsabilizzare chi lavora e chi si cura lì.
All’improvviso mi distraggo, il mio stomachino brontola, per fortuna arriva una folata di vento che porta un profumo in lontananza. Seguo questa ventata culinaria e mi ritrovo alla “cantine”, un cucinotto spazioso dove il “team” di cuoche storico sta preparando il pranzo, chi vuole mangiare lì, mette una quota stabilita in base alle proprie possibilità economiche.
C’è anche un altro spazio per cucinare in autonomia. Purtroppo mi sa che digiunerò perché vedo che Camilla se ne sta andando, allora mi concentro, con la mia forza esplosiva compio un salto mortale con doppio avvitamento e ritorno nel suo zaino. Nell’atterraggio prendo contro ad un libro. È mezzo aperto, durante il viaggio di ritorno lo sfoglio e leggo una riflessione che mi colpisce particolarmente.
“Io credo che gli artisti abbiano in comune con i “matti” una cosa: nessuno può dirgli cosa guardare o come guardarlo, chiamala libertà se vuoi. Allo stesso modo niente e nessuno può lenire il loro dolore. Credo che gli artisti come certi “matti”, abbiano dentro di se il seme di un ricordo lontanissimo, qualcosa avvenuto prima di tutte le storie. É la bellezza la scintilla di tutto. Io, ecco, credo che in certi uomini sia rimasto un ricordo, sgranato, finito nel subcosciente. Questi uomini guardano tutto per come era veramente, prima di quella cosa che è successa, e che è cambiato tutto.
Alcuni uomini non so se benedetti o maledetti, scorgono nella bellezza il suo valore originario. Parlo del peccato. Perché questo era il paradiso. Ma non abbiamo peccato, così è arrivata la morte, il tempo. Non lo sanno questi uomini, ma la nostalgia che sentono di fronte la bellezza è nostalgia di quel prima, del paradiso. Di Dio.
Una cosa tienila sempre a mente. Curati, chiedi aiuto quando serve. Ma lascia il tuo sguardo libero, non farti raccontare il mondo da nessuno. Io quella nostalgia la sento la vivo. Come vivo l’incapacità di dettare il tempo che passa, di sentirlo posticcio rispetto a tutto quello che nel mio cuore vuole vivere per sempre. Mi ritrovo nuotatore sospeso nel mezzo di una fossa oceanica: io, puntino di vita senza approdo alcuno, sotto di me chilometri di acqua nera, gelida, pronti ad abbracciarmi per sempre.”
Il libro si chiama “Tutto chiede salvezza”. Queste parole sono di Mario e di Daniele due dei cinque protagonisti. L’autore del libro si chiama Daniele Mancarelli.
È un libro biografico in cui l’autore racconta una settimana di trattamento sanitario obbligatorio che lui stesso ha fatto nel 1994 quando aveva vent’anni. In seguito a un esplosione di rabbia, si ritrovò una mattina dentro al reparto psichiatrico, in una stanza con altri 5 pazienti, persone che all’inizio lo terrorizzavano ma che poi imparerà a conoscere.
Quando prosegui nella lettura del libro, in alcune pagine, in cui Daniele descrive l’ospedale, hai la sensazione di implodere da un momento all’altro, urlare più forte che puoi, per poi ribellarti da quella costrizione e necessità inesaudita di essere ascoltato e visto in quella solitudine collettiva.
Nonostante ci siano sofferenza, fatica, incertezza, disorientamento anche qui, penso che se Daniele avesse vissuto quei 5 giorni al villaggio terapeutico di Ambokala, la nostalgia di quella bellezza e la sensazione di inadeguatezza sarebbe stata un po’ meno; certo ogni tanto bisogna pizzicarsi e tenersi svegli perché ti viene mostrata davanti agli occhi, ma non te ne accorgi o la dai per scontata. Per esempio la vedi negli “spiriti belli senza posa” come Elza e Perline che seppure nella stanchezza e nella sofferenza si sistemano le trecce a vicenda e si mettono il rossetto per partecipare alla messa tanto attesa, veloce intensa e divertente, nella chiesa del VTA di Ambokala.
Eccoci, siamo finalmente arrivati a casa, ed io sono molto stanco (sono pur sempre una rana) e questa lettura è stata impegnativa. Vi ringrazio e vi saluto condividendo un pezzo della poesia “LA BELLEZZA SI È CELATA” di Madeleine Delbrêl.
“Quando saranno partiti lungo piste oscure
Invita il vincitore
Vero
Del tuo mistero enorme e acquattato nella notte
Il Vincitore i cui occhi sono rimasti inchiodati al cuore delle rose,
Al volo della rondine, al marmo commovente
Agli spiriti belli senza posa
All’oro vergine lucente,
Ai platani vermigli, alle cose che sono belle,
Invita il vincitore senza occhi a svelare
Nell’ampio divenire dei rumori eterni
Nel tuo muto splendore che nel segreto anela l’avvenire.”
Camilla Lugli, missionaria in Madagascar