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La preparazione delle medicine all'ospedale di Ampa

Grazie! Auguri dall’FMA

A tutti voi, che portate nel cuore Ampasimanjeva e le avete donato il vostro contributo, un grande e sincero GRAZIE. Anche quest’anno sono stati tanti i pazienti visitati e ricoverati nei vari reparti dell’ospedale di Ampasimanjeva in Madagascar, molti dei quali provenienti da villaggi lontani.

L’Ospedale offre un servizio sanitario qualificato ed efficace per tutta la popolazione della regione (11 comuni, 110.000 abitanti). Lo scorso anno sono stati visitati 16.631 pazienti e le consultazioni chirurgiche sono state 1.047, i malati ricoverati 2.213 e sono stati fatti 518 vaccini a bambini in età compresa tra 0 e 11 mesi. Le visite prenatali sono state 6.116.

Sono tanti numeri, ma non vogliamo annoiarvi continuando così, perchè per quelli ci sono le statistiche e i rapporti ufficiali. Quello che vogliamo esprimere è che sono numeri alti e significativi, di un ospedale che lavora a pieno ritmo. Non si limita più solamente alla valle del Faraony, ma è diventata un centro di riferimento per tutta la zona Vatovavy Fitovinany e della regione sud-est per diverse patologie quali ad esempio quelle cardiologiche, chirurgiche e ginecologiche-ostetriche.

La vaccinazione dei bambini ad AmpasimanjevaTutto il lavoro che fanno i medici, gli infermieri e il personale sanitario per garantire ai pazienti le migliori cure di cui necessitano, è reso possibile grazie al vostro contributo, alle donazioni di privati, associazioni o singoli, che aiutano così la struttura a continuare a offrire un eccellente servizio. È a voi che tutto il personale dell’FMA rivolge i più sinceri ringraziamenti con questa lettera. Le vostre donazioni si trasformano in cure, farmaci, giornate di formazioni, apparecchiature mediche e meccaniche, cibo. Le attività della gestione dell’FMA non si limitano solo all’Ospedale, ma anche all’officina meccanica e di falegnameria e al laboratorio di Marosokatra, dove vengono prodotti succhi di frutta di litchis e ananas, principalmente.

Inoltre, il 2018 è stato un anno di transizione tra la fine del progetto “Salute madre-figlio” e l’inizio del nuovo progetto che prenderà il via a marzo 2019. Con alcune donazioni è stato possibile portare avanti le attività nei villaggi, visitando le donne incinte e pesando i neonati. Si è potuta fare la formazione alle ostetriche e alle levatrici tradizionali dei villaggi, oltre a raccogliere i dati per predisporre una schedatura per le consultazioni prenatali.

I bambini della scuoletta PapillonAltra attività satellite dell’ospedale è il “Centre Papillon”, una struttura in cui i bambini che non possono permettersi di andare a scuola, vengono accolti e aiutati ad imparare le nozioni base di matematica e malgascio. Quest’anno abbiamo realizzato una toilette, a cui possono accedere i bambini. E’ stato possibile anche iscrivere alla scuola pubblica alcuni bambini che hanno dimostrato impegno e perseveranza nello studio, per dar loro l’occasione di avere un’istruzione più completa.

La Fondation Medicale, in conclusione, gestisce non solo l’Ospedale, ma anche tutte queste attività, che necessitano di donazioni per continuare e rafforzare i lavori che quotidianamente svolgono. Vi invitiamo quindi a continuare a sostenere l’FMA, anche con un piccolo gesto, e vi ringraziamo nuovamente di cuore per l’aiuto che avete generosamente offerto.

Auguriamo a Te e alla Tua famiglia un buon Natale!

Ancora grazie dalla Comunità di Ampasimanjeva

Per la comunità Giorgia Roda

Il dottor Martin all'opera

Intervista al dottor Martin

Martin Randriatiana è il primario, chirurgo e direttore sanitario dell’FMA (Fondation Medicale d’Ampasimanjeva). Ha studiato medicina ad Antananarivo, si è specializzato in chirurgia, ha seguito un corso di medicina tropicale a Brescia e un master in ginecologia e anestesia a Scandiano (provincia di Reggio Emilia), mentre faceva uno stage all’ospedale di Sassuolo. Oltre a tutti questi titoli, il dott. Martin è un uomo estremamente gentile e paziente per cui, nonostante le tante cose che ha da fare tutti i giorni è riuscito a trovare il tempo per rispondere a qualche domanda.

 

Quando sei arrivato ad Ampasimanjeva e come mai proprio in questo ospedale?
Sono arrivato nel febbraio 1986, subito dopo aver finito gli studi. Durante il terzo anno di università mi sono sposato e prima della laurea io e mia moglie avevamo già due figli [adesso ne hanno quattro, di cui due vivono e lavorano in Italia, ndr]. Facciamo parte di un’associazione di medici cristiani e il responsabile, dopo averci chiesto se eravamo disposti a lavorare in uno degli ospedali di campagna con cui era in contatto, ci ha proposto di venire ad Ampasimanjeva. Abbiamo accettato e da quel momento non me ne sono più andato.

Perché hai deciso di rimanere a lavorare qui?
Nel corso degli anni ho ricevuto diverse offerte di lavoro, alcune anche molto prestigiose e ben retribuite, ma le ho rifiutate tutte. Qui mi sento davvero un medico, posso studiare e continuare ad imparare e ho la possibilità di fare trattamenti e cure secondo le tecniche che ci sono in Italia o in America. Negli altri ospedali si applicano solo protocolli standard, che non danno spazio all’evoluzione e all’innovazione; qua invece posso studiare una tecnica usata in un altro Paese e applicarla.
Mi sono innamorato di Ampasimanjeva e voglio rimanerci.

una visione panoramica della gente che attende fuori dall'ospedale di Ampa

Quali sono i cambiamenti più evidenti che ci sono stati in questi anni?
Quando sono arrivato facevamo i vaccini ai bambini nei villaggi, ogni giovedì. Capitava spesso, però, che una volta arrivati nessuno era pronto perché non avevano sparso la voce o non avevano ricevuto l’invito quindi era una perdita di tempo e di risorse. Adesso i vaccini si fanno in ospedale e ci sono più di 100 bambini ogni settimana.
L’altra grande differenza è che all’inizio era tutto gratuito, le persone non pagavano né la consultazione né le medicine e arrivavano ogni giorno 200 persone per farsi visitare; quando ci siamo accorti che spesso le persone buttavano via le medicine (se non era di loro gradimento il colore o il gusto) è stata inserita una quota di partecipazione minima in modo da non avere un così grande dispendio di farmaci e risorse [la quota che si chiede è comunque molto inferiore rispetto a qualsiasi altro ospedale del Madagascar, per esempio qui una scatola di paracetamolo che costa 3000 Ar, la pagano 300 Ar].
Il più grande cambiamento, però, è stata la sala operatoria. Dal 1997 ha iniziato ad essere in funzione e all’inizio si facevano solo parti cesarei, poi si è iniziata a fare formazione per operare le idroceli e poi si è iniziato ad essere operativi per tutti gli interventi addominali d’emergenza. Dal 2014 l’FMA è il punto di riferimento per gli interventi di fistole. È una pratica che inizia adesso ad essere presente nella formazione universitaria, ma per il momento sono uno dei pochissimi chirurghi che esegue questa operazione.
Abbiamo la possibilità di imparare da tutti i medici che passano di qua, a partire dai medici belgi che fanno servizio un mese all’anno come dentisti, ma anche chi si ferma di più: con l’arrivo e la permanenza della dottoressa Anna Maria Zuarini, per esempio, la cardiologia ha fatto un grande passo in avanti.

Quale senti essere la priorità dell’ospedale in questo momento?
Per migliorare avremmo bisogno di macchinari per il laboratorio. Al momento si riescono a fare solo esami che prevedono l’uso del microscopio, ma non sono esaustivi e così non è possibile individuare diverse patologia che invece sarebbe possibile vedere facilmente con altri tipi di esami e macchine apposta.

 

 

Quali sono i punti di forza dell’FMA?
Credo ci siano diversi aspetti; il primo è l’essere un ospedale di stampo cristiano. Qui tutti, i medici, gli infermieri, gli operai, lavorano con il cuore, non solo per il salario, ma per il bene delle persone che aiutano e con cui lavorano.
Il blocco operatorio è un’altra cosa che funziona bene, riusciamo ad eseguire interventi e far guarire il paziente nella quasi totalità dei casi, si verificano pochissime infezioni post-operatorie e la degenza dopo è di massimo 8 giorni, un risultato invidiabile. Anche essere un punto di riferimento per gli interventi di idrocele e fistole è senz’altro un punto di forza, ma è un luogo importante anche per le donne incinta che qui possono ricevere cure e operazioni raramente eseguite in qualunque altro ospedale.

visione esterna dell'ospedaleCosa ti auguri per il futuro della Fondation Medicale?
Vorrei che, migliorando alcuni aspetti, si potesse continuare a lavorare così. L’aiuto dell’Italia è prezioso e ci permette di fare molte cose che altrimenti non potremmo fare.
Se cambia il governo [ci sono le elezioni a novembre] cambierà anche l’attuale legge che vieta l’introduzione di farmaci provenienti da Paesi stranieri e si potrà ricominciare a ricevere medicine dall’Italia. I farmaci che abbiamo a disposizione in Madagascar adesso sono limitati e molto costosi, per cui se cambiasse quella legge sarebbe una svolta molto positiva per tutto il Paese.
Parlando di futuro… io prima o poi andrò in pensione, quindi spero che ci sarà qualcuno pronto a prendere il mio posto, ma finchè ci sarò io mi impegnerò per lavorare al meglio, migliorando io in prima persona come medico, studiando per mettere a disposizione delle persone quello che imparo

Intervista a cura di Giorgia Roda

I bambini alla scuola Papillon

Cosa c’è di nuovo? Inona ny vaovao??

Akory aby!!! (ciao a tuttiiiiii!)
Il mese di agosto sono venuti i campisti a trovarci per visitare un po’ le missioni di Reggio Emilia in Madagascar. Io ho avuto la fortuna di accompagnarli in diverse “tappe” ed è stato proprio bello passare del tempo con loro, è stato come sovrapporre due mondi fino ad ora così lontani, e diciamo che hanno portato un po’ di casa anche qui. Abbiamo condiviso tanti momenti, hanno osservato tanto, hanno fatto domande, ci hanno aiutato nei servizi, hanno espresso i loro dubbi e abbiamo fatto anche delle belle risate insieme. La loro curiosità mi ha obbligata a ripercorrere questi mesi, mi ha fatto riflettere su come li sto affrontando e le loro osservazioni mi hanno riportato un po’ a quello stupore e a quella meraviglia iniziale che con il tempo rischiano di perdersi. E così ho pensato fosse arrivato il momento di condividere anche con voi le novità della variopinta Ampasimanjeva.
Per cominciare, da metà maggio abbiamo vinto una nuova compagna di viaggio, così ora siamo in tre volontarie (io, Giorgia e Chiara) e ci stiamo preparando per accogliere Ilaria (non si sa perché ma l’affluenza maschile è ancora piuttosto bassa…). Vi dirò che essere in “tante” è davvero una bella ricchezza. I momenti di condivisione insieme sono uno stimolo per riflettere sulla settimana, per fare emergere le difficoltà e per gioire insieme delle piccole soddisfazioni. E poi così anche i problemi e le fatiche vengono affrontati da diversi punti di vista che spesso portano speranza e coraggio!
A scuola invece procede tutto bene. Grazie a varie offerte a marzo abbiamo comprato dei banchi, mentre a giugno siamo riusciti a inaugurare un piccolo bagno. Non potete immaginare quanti bambini abbia attirato! Non solo hanno iniziato a venire quasi tutti regolarmente, ma fanno addirittura a gara a chi si lava le mani e i piedi per primo prima di entrare in “classe”.
Ah, per chi ancora non avesse sentito parlare di questa scuola, proverò a darvi brevemente qualche informazione. Il vero nome è Centre papillon, e non si tratta proprio di una scuola, ma piuttosto di un luogo dove accogliere i figli dei malati ricoverati in ospedale e i bambini di Ampasimanjeva che per vari motivi non studiano più. Ad organizzare le attività quotidiane c’è una signora malgascia e io provo ad aiutarla un po’ come posso, soprattutto nella gestione dei bambini. I bimbi sono circa 60, tra quelli che vengono al mattino e quelli del pomeriggio, l’età varia dai 2 ai 13 anni e da qualche mese abbiamo deciso di dividerli in tre gruppi: i piccoli, quelli che stanno imparando a leggere e scrivere e quelli già bravini. Indipendentemente dall’età, il livello di alfabetizzazione è molto basso, e non vi nascondo che inizialmente per me è stato piuttosto difficile da accettare. Com’è possibile che a 10 anni un bambino non sappia scrivere il proprio nome? E perché per tutti qui è normale che sia così? Perché non si investe sull’istruzione? Perché ripetiamo per due ore i colori e i bambini continuano a non riconoscerli? Poi piano piano ho iniziato a capire che qui le priorità sono altre, soprattutto nelle famiglie più povere. Ho visto che le bambine già da piccole iniziano a prendersi cura dei fratelli, a cucinare per loro, a sgridarli quando si fanno male e allo stesso tempo a confortarli per farli smettere di piangere, proprio come delle mamme. I bambini invece spesso aiutano gli uomini a pascolare gli omby (zebù) o a preparare il terreno per le risaie, ed è chiaro che nei momenti liberi preferiscono far volare un aquilone, costruire una macchinina di latta o fare qualche giro in bicicletta. Ecco, diciamo che se all’inizio mi preoccupavo di dover fare, di programmare, di voler vedere risultati, ora sto iniziando a capire che a volte bisogna anche sapersi accontentare e che davvero non sono qui per cambiare il mondo ma per lasciarmi toccare e provocare da una cultura così differente dalla nostra.
Ed è quello che sto imparando anche con i tubercolotici (non più contagiosi!) e con le loro famiglie. Durante la settimana cerco sempre di ritagliarmi dei momenti per stare con loro. Non so bene perché ma proprio con loro io riesco ad essere così serena e così me stessa, tanto da dimenticarmi, a volte, di essere una vazaha (straniera) e allora ne approfitto un po’ per conoscerli meglio. Sto davvero imparando tantissimo! Mi insegnano parole del dialetto antaimoro (l’etnia che vive in questa zona del Madagascar), mi spiegano alcuni dei loro fomba (tradizioni) e dei loro fady (tabù), mi fanno conoscere un po’ di geografia raccontandomi da dove provengono, mi insegnano a pulire gli ampalibe (frutto che matura in questo periodo), mi fanno ascoltare le canzoni del momento, mi mostrano come realizzano quei bellissimi cappellini di rafia che portano in tanti e mi fanno vedere come in cinque minuti le donne riescano a riempire di treccine la testa di qualunque malgascio. E più imparo e più mi sento accolta.

Poi ci sono le nostre masere (suore) che ogni giorno, oltre a prepararci degli ottimi pasti (potrebbero davvero aprire un ristorante!), ci accompagnano con la preghiera e con tante chiacchiere. Spesso ci fanno riflettere su quello che non capiamo, ci danno consigli preziosi, ci confortano quando siamo un po’ malinconiche e sono davvero un esempio. L’attenzione che hanno verso i poveri e i malati, il loro prendersi cura dei più piccoli e la loro instancabilità sono davvero qualità difficili da trovare, in qualunque paese, e dalle quali speriamo di essere un po’ contagiate anche noi!
Ad ogni modo non tutto è sempre rose e fiori.
Con la lingua malgascia non è tutto in discesa, tante espressioni sono per me ancora dei misteri (anche se dopo tanto allenamento finalmente riesco a fingere abbastanza bene di aver capito) però per fortuna nelle conversazioni di tutti i giorni un po’ riesco a farmi a capire, e alla fine è questo quello che conta no?
Inoltre certe linee di pensiero qui molto comuni faccio fatica a condividerle, e alcuni comportamenti sono ancora difficili da accettare, ma perché forse giudico sulla base di quello che vedo mentre spesso c’è qualcosa dietro che giustifica un certo modo di fare, ed è quello che spero di riuscire a trovare nei prossimi mesi.
E poi c’è quell’etichetta che troppo spesso mi sento attaccata in fronte dagli sguardi della gente e che mi fa tanto dispiacere: bianco = soldi. E la cosa che forse più mi fa arrabbiare è che non riesco a ribattere, perché è vero che noi in confronto siamo “ricchi”, e però io cosa posso farci? E allora provo a parlare con chi mi chiede soldi, chiedo da dove vengono, quanti figli o fratelli hanno, e loro mi rispondono, stupiti di vedere ogni tanto un bianco che prova a parlare in malgascio.

E così ecco qua un po’ gli aggiornamenti sulla nostra quotidianità,
per ora tanti saluti da Ampa e…. alla prossima!

Giulia

Il panorama di Ampasimanjeva

Ampasimanjeva: essere ospiti…con una parte del cuore rimasta là

Si è chiuso un piccolo ed importante capitolo di questo lungo percorso che a noi sembra‚ però, troppo corto.
Il 18 agosto abbiamo dovuto salutare Ampasimanjeva. Inutile dire che una parte del nostro cuore è rimasta là.
Nel viaggio per raggiungerla, percorrendo al buio quell’ora di strada sterrata con buche che sembravano voragini, pensavamo di essere arrivati alla fine del mondo.
Appena arrivati a destinazione, ci siamo seduti a tavola in fretta e furia “perché poi bisogna spegnere il generatore!”. Infatti, la corrente elettrica ad Ampasimanjeva non c’è. Per l’ospedale e le altre stanze antistanti dei dipendenti viene tenuta accesa attraverso un gruppo elettrogeno solo un’oretta o due al giorno dopo il tramonto per permettere alle persone di lavarsi e cucinare, poi viene spenta e risparmiata per eventuali urgenze in ospedale.
Ci siamo accorti che le cose al buio acquisivano un’altra fisionomia, gli altri sensi si espandevano e si sviluppavano maggiormente. Ci siamo ritrovati ad apprezzare quel fascio di luce della torcia prima di addormentarci, che offriva un po’ di senso di calore. A Manakara è stato strano riabituarsi alla luce elettrica, è come se la vista regnasse di nuovo sovrana in ogni situazione. Ci siamo chiesti: sarà forse per questo che noi diamo così importanza all’apparenza?

I bambini giocano a calcio nel campetto fangoso di Ampasimanjeva

I bambini giocano a calcio nel campetto fangoso di Ampasimanjeva

È stato emozionante sentire il profumo dell’aria pura, non inquinata, di aperta campagna, assaggiare i sapori dei cibi che le suore ci cucinavano con tanto amore, udire i rumori della natura mentre ci ritrovavamo alla sera in cerchio sotto alla veranda dei volontari per giocare a lupus, stringere le manine calde e un po’ fangose dei bambini che tutti contenti ci hanno accompagnato a fare il giro del villaggio, ascoltare le parole di preghiera, di confronto e di condivisione delle volontarie che hanno deciso di dedicare un anno della loro vita lì, soltanto per esserci.

Quello che si può notare ad Ampasimanjeva è il collegamento fondamentale che esiste fra tutti i progetti della missione presenti: le persone malate di tubercolosi non sono persone escluse, ma sono parte di una comunità. Giocano a calcio con i bambini della scuola e i loro figli frequentano insieme ad altri proprio quella scuola. Ci chiedevamo: tutto non parte forse dall’educazione scolastica?

La Ludoteca “Papillon“ è una scuola libera e gratuita non riconosciuta ufficialmente. Inizialmente, era nata per permettere ai figli dei malati di tubercolosi, che devono sottoporsi ad un trattamento di due mesi in ospedale, di avere continuità nella formazione. Successivamente, si è poi deciso di aprirla a tutti i bambini del villaggio che hanno più di tre anni e che non possono permettersi di andare a scuola.
Ci è sembrata un’apertura che significa vera accoglienza e giocando con tutti quei bambini si può percepire la loro gratitudine nel sentirsi accolti e nell’avere qui un punto di riferimento.

Le scuole statali e private sono tutte a pagamento e pochi genitori possono permettersi di mandarci i loro figli.
Il tasso di analfabetismo, ci riferiscono i volontari, è del 78%. Qui, oltre a Madame Beatrice che la gestisce, c’è Giulia, che con il suo sorriso accoglie con gioia ogni bambino.

Un bimbo con un cellulare ad AmpasimanjevaGiulia ci ha raccontato due episodi: una volta si era un po’ arrabbiata con un bambino che sembrava molto motivato, ma veniva poco a scuola. Allora, glielo aveva fatto presente e lui aveva risposto che non poteva esserci sempre non perché non volesse, ma perché doveva andare a far pascolare gli zebù.
L’altro episodio che ha condiviso riguarda il venerdì alla Ludoteca. Durante quella mattinata si guarda sempre insieme un film e molti bambini, che vengono a scuola proprio per imparare e sono molto motivati oppure che vengono da molto lontano a piedi o in lakana (canoa), non si presentano perché “mi sembra solo di perdere tempo”.

Ilaria con i bimbiPresto sarà il turno di Ilaria, con la quale abbiamo condiviso parte del nostro viaggio e che affidiamo con gioia al Signore.

 

 

 

 

L’altro progetto del CMD ad Ampasimanjeva che abbiamo avuto l’occasione di conoscere è l’ospedale.

L’esterno dell’ospedale di Ampasimanjeva con malati e parenti in attesa

È uno degli ospedali di riferimento del sud del Madagascar, in cui i pazienti hanno la possibilità di pagare le cure in base alla loro disponibilità economica e in ogni caso sono sempre garantite.
Chiara ci ha fatto fare un giro lungo ed approfondito di tutti gli spazi fisici ed emotivi presenti. Ci ha raccontato con passione alcune storie di malati che l’hanno colpita: storie di donne che muoiono ancora e spesso di parto, storie di presunte vittime di violenza, storie di persone con infezioni così grandi che ormai invadono tutto il corpo, storie di donne che tengono i loro figli appena nati con loro già sotto le coperte, storie di padri che muoiono e che lasciano una figlioletta che ha come unico punto di riferimento la scuola, storie di bambini che si presentano senza un arto, e tante tante altre. Sentiamo il peso di queste storie, la fatica di raccontarle e anche di accettarle.
Chiara ci ha spiegato anche che la gente ha paura di venire in ospedale perché gira voce che “in ospedale si muore“. Ci ha detto anche che questo pregiudizio è comprensibile perché spesso le persone arrivano in ospedale all’ultimo momento, all’ultimo stadio della malattia, quindi come ultima spiaggia prima di morire e quando ormai è troppo tardi.
Sarà forse che il centro della loro vita è la sopravvivenza quotidiana, quindi il lavoro e i bisogni primari? Sarà per questo che non c’è tempo e spazio per la riflessione, per pensare a cosa fare e per prendersi cura di sé e degli altri?
A questo proposito ci è stato riportato un detto malgascio: “fai tanti figli, perché si sa già che alcuni moriranno.”
Mentre eravamo tutti seduti di fronte all’ospedale abbiamo visto passare una persona deceduta in una barella fatta di legno e ci è subito apparso chiaro che la morte fa parte davvero della vita, ma è così tanto difficile da accettare e affidare la nostra vita e quella degli altri al Signore. Capiamo anche che le emozioni di fronte ad un evento così traumatico come la morte vengono espresse in modo differente in base ai modelli culturali di riferimento: qui, ad esempio, non va bene piangere e i bambini vengono sgridati se piangono.

Abbiamo dato un’occhiata veloce alle ‘cucine’, spazi predisposti per i familiari dei malati: nella stessa stanza questi preparano da mangiare e dormono su stuoie per terra. Ogni malato, infatti, si porta dietro tutta la famiglia e a turno ogni componente si prende cura della sua assistenza di base. Entrando in una stanza dell’area adulti, ci è stato fatto notare che qui le persone sono fortunate perché a tutti è garantito il materasso sul letto, cosa che negli altri ospedali non avviene e solo chi riesce a permetterselo lo noleggia, altrimenti utilizzano una stuoia sopra alla rete. Poi, siamo stati nell’area materno-infantile e nella sala parto, dove un gran numero di donne incinte e malate formavano una lunga fila tranquilla e paziente.

La sala operatoria dell’ospedale di Ampasimanjeva

Infine, dopo il dispensario dei medicinali e il laboratorio per le analisi del sangue, finalmente la sala operatoria, che è l’unico ambiente più o meno a norma secondo la nostra logica occidentale per quanto riguarda la sterilità.

È davvero difficile descrivere a parole le grandi differenze rispetto agli ospedali italiani e provare a trovare un senso a tutta questa sofferenza e al modo di gestirla qui, in Italia e ovunque.

Gran parte dei mezzi che sostengono tutto l’ospedale sono i fondi inviati dalla Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla, che derivano da donazioni, e l’amore e la cura dei volontari, delle suore malgasce, del signor Giorgio Predieri e dei pochi dipendenti, rigorosamente tutti malgasci, che ci lavorano quotidianamente. Fra questi, il Dottor Martin è davvero uno dei punti di riferimento principali, medico chirurgo ginecologo, formatosi prima ad Antananarivo e poi in Italia e dalla capitale trasferitosi qui con tutta la famiglia, anche lui in missione in questa piccola realtà. Chiara ci ha raccontato che lui gioca e allena nella squadra locale di basket.

Il dottor Martin, direttore dell’ospedale di Ampasimanjeva

Ci hanno colpito immensamente le sue parole: “giocare a basket è come lavorare in ospedale, se fai canestro, se riesci a guarire un malato o fare un’operazione che va poi a buon fine, fai centro e sei contento!”. Ci ha fatto un po’ commuovere tutti la sua pace interiore, il suo impegno, la sua sensibilità, il suo prendersi a cuore, il suo caricarsi delle responsabilità, la sua decisione di non andare in pensione per continuare ad operare: è davvero un esempio di grande umiltà.

Un’ altra attività di cui si occupano i volontari è quella con le persone malate di tubercolosi, che vivono insieme ai loro familiari in strutture separate ma vicine all’ospedale, anche se non sono più contagiosi una volta iniziata la terapia.

Giulia e Giorgia ora si alternano tutte le mattine per fare un piccolo momento con loro, dando loro le medicine e provando loro la febbre per avere un monitoraggio costante dell’andamento della loro guarigione. Osservando le loro cartelle ci hanno colpito i dati riguardo al loro peso e l’età: 25-35 chili e alcuni anche molti giovani. Sono una piccola e accogliente comunità, ridono e scherzano fra loro e ci hanno fatto sentire tanto accolti. C’è un ‘capo’ che coordina un po’ il tutto ed è un punto di riferimento per tutti i questi malati. Quello attuale è un ragazzo giovane con un sorriso smagliante e con la battuta sempre pronta.

La sala di attesa dell'opsedale

Ci viene quindi ancora da chiederci quanto e quale posto occupa la malattia nella mente e nel cuore delle persone che abbiamo incontrato.

Lasciamo per ultima una frase che un anziano signore in un banchetto ad Ampasimanjeva ha detto a Giulia, mentre ci vedeva passare nel villaggio, e che lei, commossa, ci ha tradotto ringraziando il Signore: “sono arrivati degli ospiti, che bello!”. Ed è stato proprio un grande insegnamento di ospitalità e di accoglienza: per una volta al posto della parola ‘vazaha’ (stranieri), c’è stata donata la parola ‘ospiti’.

I campisti ampasimanjevi 2018

la strada di Ambositra, dove abito ora

Non vedo l’ora di Ampasimanjeva

21 marzo 2018
Avrei voluto iniziare questo racconto citando uno dei numerosi modi di dire o detti malgasci, ma per ora l’unico che ho imparato, ieri a lezione, è “Olombelo tsy akoho”, che letteralmente significa “l’uomo non è una gallina (che non fa la pipì)” e si usa per chiedere una pausa – bagno quando si viaggia in taxi brousse (il mezzo pubblico più popolare da queste parti), quindi non mi sembra molto adatto per il mio primo resoconto di missione…che dite?

Sono atterrata ad Antananarivo nel cuore della notte, il 21 febbraio. Ho fatto gli ultimi gradini, un respiro profondo, ho alzato gli occhi e mi sono commossa. Era tardissimo e dopo 13 ore di aereo non ero sicura di ricordarmi neanche il mio nome, ma giuro che così tante stelle non le ho mai viste. Il cielo qui è a portata di mano, ogni volta che alzo lo sguardo, sia che ci siano nuvole cariche di pioggia, sia che ci sia la luna o un tramonto mozzafiato, resto a bocca aperta accorgendomi che potrei alzare un dito e accarezzare la volta celeste.
Un misto di emozioni che non so neanche descrivere: stanchezza, incredulità, felicità, gratitudine. Il sogno è diventato realtà.
Me ne rendo conto a sprazzi, però. Ho paura di svegliarmi un giorno di soprassalto nella mia camera a Bologna. Vivere qui, in questa casa immensa con arredi interamente di legno e pavimento di terracotta, mi sembra la cosa più naturale del mondo.

la strada di Ambositra, dove abito ora

La strada principale di Ambositra

 

Mi sento fuori posto quando cammino per strada, quello sì. Nessuno perde l’occasione di fermarsi, fissarmi, additarmi e sussurrare o in alcuni casi esclamare “vazaha” (bianco europeo). Nel caso a volte ci fosse il pericolo di dimenticarmi di che colore ho la pelle, mi basta mettere un piede fuori casa per averlo chiaro. È una sensazione che non mi piace, essere la straniera non è confortante, soprattutto ora che non so la lingua e non riesco ad integrarmi neanche volendo.

La lingua è un problema. Cioè, è un mio problema. Giulia non fa fatica, a lei basta ricopiare gli appunti per ricordarsi tutto. Io sono una capra invece: le lingue non sono mai state il mio forte, ma il malgascio è oggettivamente una lingua difficile e mi ci vuole un sacco di tempo per assimilare le nozioni.
A parte un paio di volte la carne di zebù, la nostra alimentazione non prevede né carne né pesce e ne sto risentendo. Mangiamo riso o pasta, verdura e frutta. Ho imparato a non fare storie e mangiare quello che c’è, anche cose che in Italia rifiuto a priori (riso in bianco, pomodori, parmigiano, verza cotta, cipolla etc), ma per fortuna ho anche la possibilità di mangiare un tanti succulenti frutti tropicali!
Abbiamo lezione 1 o 2 ore al giorno, quindi abbiamo un sacco di tempo libero e me lo godo tutto. Leggo libri, ascolto musica, mi riposo, cucino, vado a correre (so che nessuno ci crede, ma è la realtà: cucino e corro, non contemporaneamente certo, però è proprio vero che l’Africa cambia le persone!)

Ambositra

Abito con Giulia, don Simone e don Luca e insieme diciamo le Lodi ogni mattina alle 6.10 poi andiamo alla Casa della Carità per la Messa e concludiamo la giornata dicendo la Compieta insieme. La vita di comunità procede tranquilla e pacifica, a parte qualche divergenza riguardo l’abitazione che don Simone ha pensato per i 26 pulcini nati dalle 3 galline che ama allevare…
Questo però è un mese un po’ anomalo, di transizione. Sabato ci dirigeremo verso sud e, mentre Giulia, Diana, don Luca e don Simone proseguiranno fino a Manakara, io mi fermerò ad Ampasimanjeva, dove mi aspettano Giulia, Cristina, Giorgio, le suore della Casa della Carità e il mio progetto missionario.

 

Non vedo l’ora di vedere la mia nuova casa e conoscere i miei compagni di avventura!
Da domenica inizia il vero, inizia il bello, inizia il mio anno missionario.

Giorgia