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I bambini alla scuola Papillon

Cosa c’è di nuovo? Inona ny vaovao??

Akory aby!!! (ciao a tuttiiiiii!)
Il mese di agosto sono venuti i campisti a trovarci per visitare un po’ le missioni di Reggio Emilia in Madagascar. Io ho avuto la fortuna di accompagnarli in diverse “tappe” ed è stato proprio bello passare del tempo con loro, è stato come sovrapporre due mondi fino ad ora così lontani, e diciamo che hanno portato un po’ di casa anche qui. Abbiamo condiviso tanti momenti, hanno osservato tanto, hanno fatto domande, ci hanno aiutato nei servizi, hanno espresso i loro dubbi e abbiamo fatto anche delle belle risate insieme. La loro curiosità mi ha obbligata a ripercorrere questi mesi, mi ha fatto riflettere su come li sto affrontando e le loro osservazioni mi hanno riportato un po’ a quello stupore e a quella meraviglia iniziale che con il tempo rischiano di perdersi. E così ho pensato fosse arrivato il momento di condividere anche con voi le novità della variopinta Ampasimanjeva.
Per cominciare, da metà maggio abbiamo vinto una nuova compagna di viaggio, così ora siamo in tre volontarie (io, Giorgia e Chiara) e ci stiamo preparando per accogliere Ilaria (non si sa perché ma l’affluenza maschile è ancora piuttosto bassa…). Vi dirò che essere in “tante” è davvero una bella ricchezza. I momenti di condivisione insieme sono uno stimolo per riflettere sulla settimana, per fare emergere le difficoltà e per gioire insieme delle piccole soddisfazioni. E poi così anche i problemi e le fatiche vengono affrontati da diversi punti di vista che spesso portano speranza e coraggio!
A scuola invece procede tutto bene. Grazie a varie offerte a marzo abbiamo comprato dei banchi, mentre a giugno siamo riusciti a inaugurare un piccolo bagno. Non potete immaginare quanti bambini abbia attirato! Non solo hanno iniziato a venire quasi tutti regolarmente, ma fanno addirittura a gara a chi si lava le mani e i piedi per primo prima di entrare in “classe”.
Ah, per chi ancora non avesse sentito parlare di questa scuola, proverò a darvi brevemente qualche informazione. Il vero nome è Centre papillon, e non si tratta proprio di una scuola, ma piuttosto di un luogo dove accogliere i figli dei malati ricoverati in ospedale e i bambini di Ampasimanjeva che per vari motivi non studiano più. Ad organizzare le attività quotidiane c’è una signora malgascia e io provo ad aiutarla un po’ come posso, soprattutto nella gestione dei bambini. I bimbi sono circa 60, tra quelli che vengono al mattino e quelli del pomeriggio, l’età varia dai 2 ai 13 anni e da qualche mese abbiamo deciso di dividerli in tre gruppi: i piccoli, quelli che stanno imparando a leggere e scrivere e quelli già bravini. Indipendentemente dall’età, il livello di alfabetizzazione è molto basso, e non vi nascondo che inizialmente per me è stato piuttosto difficile da accettare. Com’è possibile che a 10 anni un bambino non sappia scrivere il proprio nome? E perché per tutti qui è normale che sia così? Perché non si investe sull’istruzione? Perché ripetiamo per due ore i colori e i bambini continuano a non riconoscerli? Poi piano piano ho iniziato a capire che qui le priorità sono altre, soprattutto nelle famiglie più povere. Ho visto che le bambine già da piccole iniziano a prendersi cura dei fratelli, a cucinare per loro, a sgridarli quando si fanno male e allo stesso tempo a confortarli per farli smettere di piangere, proprio come delle mamme. I bambini invece spesso aiutano gli uomini a pascolare gli omby (zebù) o a preparare il terreno per le risaie, ed è chiaro che nei momenti liberi preferiscono far volare un aquilone, costruire una macchinina di latta o fare qualche giro in bicicletta. Ecco, diciamo che se all’inizio mi preoccupavo di dover fare, di programmare, di voler vedere risultati, ora sto iniziando a capire che a volte bisogna anche sapersi accontentare e che davvero non sono qui per cambiare il mondo ma per lasciarmi toccare e provocare da una cultura così differente dalla nostra.
Ed è quello che sto imparando anche con i tubercolotici (non più contagiosi!) e con le loro famiglie. Durante la settimana cerco sempre di ritagliarmi dei momenti per stare con loro. Non so bene perché ma proprio con loro io riesco ad essere così serena e così me stessa, tanto da dimenticarmi, a volte, di essere una vazaha (straniera) e allora ne approfitto un po’ per conoscerli meglio. Sto davvero imparando tantissimo! Mi insegnano parole del dialetto antaimoro (l’etnia che vive in questa zona del Madagascar), mi spiegano alcuni dei loro fomba (tradizioni) e dei loro fady (tabù), mi fanno conoscere un po’ di geografia raccontandomi da dove provengono, mi insegnano a pulire gli ampalibe (frutto che matura in questo periodo), mi fanno ascoltare le canzoni del momento, mi mostrano come realizzano quei bellissimi cappellini di rafia che portano in tanti e mi fanno vedere come in cinque minuti le donne riescano a riempire di treccine la testa di qualunque malgascio. E più imparo e più mi sento accolta.

Poi ci sono le nostre masere (suore) che ogni giorno, oltre a prepararci degli ottimi pasti (potrebbero davvero aprire un ristorante!), ci accompagnano con la preghiera e con tante chiacchiere. Spesso ci fanno riflettere su quello che non capiamo, ci danno consigli preziosi, ci confortano quando siamo un po’ malinconiche e sono davvero un esempio. L’attenzione che hanno verso i poveri e i malati, il loro prendersi cura dei più piccoli e la loro instancabilità sono davvero qualità difficili da trovare, in qualunque paese, e dalle quali speriamo di essere un po’ contagiate anche noi!
Ad ogni modo non tutto è sempre rose e fiori.
Con la lingua malgascia non è tutto in discesa, tante espressioni sono per me ancora dei misteri (anche se dopo tanto allenamento finalmente riesco a fingere abbastanza bene di aver capito) però per fortuna nelle conversazioni di tutti i giorni un po’ riesco a farmi a capire, e alla fine è questo quello che conta no?
Inoltre certe linee di pensiero qui molto comuni faccio fatica a condividerle, e alcuni comportamenti sono ancora difficili da accettare, ma perché forse giudico sulla base di quello che vedo mentre spesso c’è qualcosa dietro che giustifica un certo modo di fare, ed è quello che spero di riuscire a trovare nei prossimi mesi.
E poi c’è quell’etichetta che troppo spesso mi sento attaccata in fronte dagli sguardi della gente e che mi fa tanto dispiacere: bianco = soldi. E la cosa che forse più mi fa arrabbiare è che non riesco a ribattere, perché è vero che noi in confronto siamo “ricchi”, e però io cosa posso farci? E allora provo a parlare con chi mi chiede soldi, chiedo da dove vengono, quanti figli o fratelli hanno, e loro mi rispondono, stupiti di vedere ogni tanto un bianco che prova a parlare in malgascio.

E così ecco qua un po’ gli aggiornamenti sulla nostra quotidianità,
per ora tanti saluti da Ampa e…. alla prossima!

Giulia

Il panorama di Ampasimanjeva

Ampasimanjeva: essere ospiti…con una parte del cuore rimasta là

Si è chiuso un piccolo ed importante capitolo di questo lungo percorso che a noi sembra‚ però, troppo corto.
Il 18 agosto abbiamo dovuto salutare Ampasimanjeva. Inutile dire che una parte del nostro cuore è rimasta là.
Nel viaggio per raggiungerla, percorrendo al buio quell’ora di strada sterrata con buche che sembravano voragini, pensavamo di essere arrivati alla fine del mondo.
Appena arrivati a destinazione, ci siamo seduti a tavola in fretta e furia “perché poi bisogna spegnere il generatore!”. Infatti, la corrente elettrica ad Ampasimanjeva non c’è. Per l’ospedale e le altre stanze antistanti dei dipendenti viene tenuta accesa attraverso un gruppo elettrogeno solo un’oretta o due al giorno dopo il tramonto per permettere alle persone di lavarsi e cucinare, poi viene spenta e risparmiata per eventuali urgenze in ospedale.
Ci siamo accorti che le cose al buio acquisivano un’altra fisionomia, gli altri sensi si espandevano e si sviluppavano maggiormente. Ci siamo ritrovati ad apprezzare quel fascio di luce della torcia prima di addormentarci, che offriva un po’ di senso di calore. A Manakara è stato strano riabituarsi alla luce elettrica, è come se la vista regnasse di nuovo sovrana in ogni situazione. Ci siamo chiesti: sarà forse per questo che noi diamo così importanza all’apparenza?

I bambini giocano a calcio nel campetto fangoso di Ampasimanjeva

I bambini giocano a calcio nel campetto fangoso di Ampasimanjeva

È stato emozionante sentire il profumo dell’aria pura, non inquinata, di aperta campagna, assaggiare i sapori dei cibi che le suore ci cucinavano con tanto amore, udire i rumori della natura mentre ci ritrovavamo alla sera in cerchio sotto alla veranda dei volontari per giocare a lupus, stringere le manine calde e un po’ fangose dei bambini che tutti contenti ci hanno accompagnato a fare il giro del villaggio, ascoltare le parole di preghiera, di confronto e di condivisione delle volontarie che hanno deciso di dedicare un anno della loro vita lì, soltanto per esserci.

Quello che si può notare ad Ampasimanjeva è il collegamento fondamentale che esiste fra tutti i progetti della missione presenti: le persone malate di tubercolosi non sono persone escluse, ma sono parte di una comunità. Giocano a calcio con i bambini della scuola e i loro figli frequentano insieme ad altri proprio quella scuola. Ci chiedevamo: tutto non parte forse dall’educazione scolastica?

La Ludoteca “Papillon“ è una scuola libera e gratuita non riconosciuta ufficialmente. Inizialmente, era nata per permettere ai figli dei malati di tubercolosi, che devono sottoporsi ad un trattamento di due mesi in ospedale, di avere continuità nella formazione. Successivamente, si è poi deciso di aprirla a tutti i bambini del villaggio che hanno più di tre anni e che non possono permettersi di andare a scuola.
Ci è sembrata un’apertura che significa vera accoglienza e giocando con tutti quei bambini si può percepire la loro gratitudine nel sentirsi accolti e nell’avere qui un punto di riferimento.

Le scuole statali e private sono tutte a pagamento e pochi genitori possono permettersi di mandarci i loro figli.
Il tasso di analfabetismo, ci riferiscono i volontari, è del 78%. Qui, oltre a Madame Beatrice che la gestisce, c’è Giulia, che con il suo sorriso accoglie con gioia ogni bambino.

Un bimbo con un cellulare ad AmpasimanjevaGiulia ci ha raccontato due episodi: una volta si era un po’ arrabbiata con un bambino che sembrava molto motivato, ma veniva poco a scuola. Allora, glielo aveva fatto presente e lui aveva risposto che non poteva esserci sempre non perché non volesse, ma perché doveva andare a far pascolare gli zebù.
L’altro episodio che ha condiviso riguarda il venerdì alla Ludoteca. Durante quella mattinata si guarda sempre insieme un film e molti bambini, che vengono a scuola proprio per imparare e sono molto motivati oppure che vengono da molto lontano a piedi o in lakana (canoa), non si presentano perché “mi sembra solo di perdere tempo”.

Ilaria con i bimbiPresto sarà il turno di Ilaria, con la quale abbiamo condiviso parte del nostro viaggio e che affidiamo con gioia al Signore.

 

 

 

 

L’altro progetto del CMD ad Ampasimanjeva che abbiamo avuto l’occasione di conoscere è l’ospedale.

L’esterno dell’ospedale di Ampasimanjeva con malati e parenti in attesa

È uno degli ospedali di riferimento del sud del Madagascar, in cui i pazienti hanno la possibilità di pagare le cure in base alla loro disponibilità economica e in ogni caso sono sempre garantite.
Chiara ci ha fatto fare un giro lungo ed approfondito di tutti gli spazi fisici ed emotivi presenti. Ci ha raccontato con passione alcune storie di malati che l’hanno colpita: storie di donne che muoiono ancora e spesso di parto, storie di presunte vittime di violenza, storie di persone con infezioni così grandi che ormai invadono tutto il corpo, storie di donne che tengono i loro figli appena nati con loro già sotto le coperte, storie di padri che muoiono e che lasciano una figlioletta che ha come unico punto di riferimento la scuola, storie di bambini che si presentano senza un arto, e tante tante altre. Sentiamo il peso di queste storie, la fatica di raccontarle e anche di accettarle.
Chiara ci ha spiegato anche che la gente ha paura di venire in ospedale perché gira voce che “in ospedale si muore“. Ci ha detto anche che questo pregiudizio è comprensibile perché spesso le persone arrivano in ospedale all’ultimo momento, all’ultimo stadio della malattia, quindi come ultima spiaggia prima di morire e quando ormai è troppo tardi.
Sarà forse che il centro della loro vita è la sopravvivenza quotidiana, quindi il lavoro e i bisogni primari? Sarà per questo che non c’è tempo e spazio per la riflessione, per pensare a cosa fare e per prendersi cura di sé e degli altri?
A questo proposito ci è stato riportato un detto malgascio: “fai tanti figli, perché si sa già che alcuni moriranno.”
Mentre eravamo tutti seduti di fronte all’ospedale abbiamo visto passare una persona deceduta in una barella fatta di legno e ci è subito apparso chiaro che la morte fa parte davvero della vita, ma è così tanto difficile da accettare e affidare la nostra vita e quella degli altri al Signore. Capiamo anche che le emozioni di fronte ad un evento così traumatico come la morte vengono espresse in modo differente in base ai modelli culturali di riferimento: qui, ad esempio, non va bene piangere e i bambini vengono sgridati se piangono.

Abbiamo dato un’occhiata veloce alle ‘cucine’, spazi predisposti per i familiari dei malati: nella stessa stanza questi preparano da mangiare e dormono su stuoie per terra. Ogni malato, infatti, si porta dietro tutta la famiglia e a turno ogni componente si prende cura della sua assistenza di base. Entrando in una stanza dell’area adulti, ci è stato fatto notare che qui le persone sono fortunate perché a tutti è garantito il materasso sul letto, cosa che negli altri ospedali non avviene e solo chi riesce a permetterselo lo noleggia, altrimenti utilizzano una stuoia sopra alla rete. Poi, siamo stati nell’area materno-infantile e nella sala parto, dove un gran numero di donne incinte e malate formavano una lunga fila tranquilla e paziente.

La sala operatoria dell’ospedale di Ampasimanjeva

Infine, dopo il dispensario dei medicinali e il laboratorio per le analisi del sangue, finalmente la sala operatoria, che è l’unico ambiente più o meno a norma secondo la nostra logica occidentale per quanto riguarda la sterilità.

È davvero difficile descrivere a parole le grandi differenze rispetto agli ospedali italiani e provare a trovare un senso a tutta questa sofferenza e al modo di gestirla qui, in Italia e ovunque.

Gran parte dei mezzi che sostengono tutto l’ospedale sono i fondi inviati dalla Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla, che derivano da donazioni, e l’amore e la cura dei volontari, delle suore malgasce, del signor Giorgio Predieri e dei pochi dipendenti, rigorosamente tutti malgasci, che ci lavorano quotidianamente. Fra questi, il Dottor Martin è davvero uno dei punti di riferimento principali, medico chirurgo ginecologo, formatosi prima ad Antananarivo e poi in Italia e dalla capitale trasferitosi qui con tutta la famiglia, anche lui in missione in questa piccola realtà. Chiara ci ha raccontato che lui gioca e allena nella squadra locale di basket.

Il dottor Martin, direttore dell’ospedale di Ampasimanjeva

Ci hanno colpito immensamente le sue parole: “giocare a basket è come lavorare in ospedale, se fai canestro, se riesci a guarire un malato o fare un’operazione che va poi a buon fine, fai centro e sei contento!”. Ci ha fatto un po’ commuovere tutti la sua pace interiore, il suo impegno, la sua sensibilità, il suo prendersi a cuore, il suo caricarsi delle responsabilità, la sua decisione di non andare in pensione per continuare ad operare: è davvero un esempio di grande umiltà.

Un’ altra attività di cui si occupano i volontari è quella con le persone malate di tubercolosi, che vivono insieme ai loro familiari in strutture separate ma vicine all’ospedale, anche se non sono più contagiosi una volta iniziata la terapia.

Giulia e Giorgia ora si alternano tutte le mattine per fare un piccolo momento con loro, dando loro le medicine e provando loro la febbre per avere un monitoraggio costante dell’andamento della loro guarigione. Osservando le loro cartelle ci hanno colpito i dati riguardo al loro peso e l’età: 25-35 chili e alcuni anche molti giovani. Sono una piccola e accogliente comunità, ridono e scherzano fra loro e ci hanno fatto sentire tanto accolti. C’è un ‘capo’ che coordina un po’ il tutto ed è un punto di riferimento per tutti i questi malati. Quello attuale è un ragazzo giovane con un sorriso smagliante e con la battuta sempre pronta.

La sala di attesa dell'opsedale

Ci viene quindi ancora da chiederci quanto e quale posto occupa la malattia nella mente e nel cuore delle persone che abbiamo incontrato.

Lasciamo per ultima una frase che un anziano signore in un banchetto ad Ampasimanjeva ha detto a Giulia, mentre ci vedeva passare nel villaggio, e che lei, commossa, ci ha tradotto ringraziando il Signore: “sono arrivati degli ospiti, che bello!”. Ed è stato proprio un grande insegnamento di ospitalità e di accoglienza: per una volta al posto della parola ‘vazaha’ (stranieri), c’è stata donata la parola ‘ospiti’.

I campisti ampasimanjevi 2018

Grande tavolata per cena ad Ambositra

Giulia, ad Ampasimanjeva da 4 mesi

Ciao a tutti!!
Sono passati ormai quattro mesi da quando sono arrivata in Madagascar e mi rendo conto che ancora è difficile metabolizzare e descrivere quello che sto vivendo.
Sono arrivata con la delegazione reggiana per celebrare i 50 anni di missione qui in Madagascar. Ho potuto conoscere tante realtà diverse di volontariato, i progetti del Centro Missionario e di RTM, le Case di Carità e le suore (è incredibile come in qualunque parte del mondo siano sempre super accoglienti, allegre e disponibili!),e gli altri volontari, ormai preziosi compagni di viaggio.

Una fila di prodotti del Madagascar in vendita

Il mercato malgascio e i suoi mille colori

In questo primo mese ho osservato tanto, con curiosità, cercando di cogliere tutte le sfumature di questo paese per me completamente nuovo. I volti delle persone, i mercati affollati, con i loro profumi (non sempre piacevoli) e i loro mille colori, la frutta mai vista prima, i vari paesaggi incontrati, i chilometri e chilometri di risaie che si attraversano andando verso sud, seguiti da chilometri e chilometri di distese di ravinale, di palme, di banani… Strade infinite dove poche sono le macchine, tanti i taxi brousse (tipo i nostri pullmini che qui sono il mezzo di trasporto pubblico più utilizzato) ma ancora di più sono le persone ai lati di queste strade che portano qualunque cosa (cibo, vestiti, oggetti vari) rigorosamente in equilibrio sulla testa. E poi tanti sono anche i progetti che abbiamo visitato da vicino. Vedere quante persone si spendono per dare una casa, del cibo, un’educazione scolastica, o anche “solo” una speranza ai più piccoli e ai più poveri ti permette di aprire gli occhi e vedere quanto bello c’è intorno a noi. E allo stesso tempo è contagioso, ti fa pensare a quante altre cose si potrebbero fare, sia qui che in Italia, e allora ti chiedi dove sia il tuo posto, con chi e soprattutto a fare cosa. Insomma, dopo questo primo mese avevo tante domande per la testa. Poi sono andata ad Ambositra a studiare un po’ la lingua.

una tavolata in amicizia

Cena con compagni di studi e professori!

E così i punti interrogativi sono aumentati. Il malgascio è una lingua difficile, non c’è una parola che sia vagamente intuibile, la struttura della frase è diversa dalla nostra, insomma….un casino! Per fortuna la casa dei volontari è di fianco alla Casa di Carità! In Casa di Carità gli ospiti non si aspettano che tu faccia chissà che discorsi, e non ti fanno domande troppo complicate. A loro basta che tu sia presente, che preghi con loro, che gli fai compagnia anche solo con un sorriso (anche se di solito ne approfittavo per ripassare quello che avevo studiato al mattino…una scena piuttosto ridicola insomma!)
E poi per Natale sono arrivata ad Ampasimanjeva (Ampa per gli amici). La prima cosa che impari è il saluto tipico di qui: “akory aby!” “tsara be, akory!” “tsara be!” (durante il giorno si ripete almeno venti volte, e così intanto sei certo di non fare mai scena muta!), il problema nasce quando poi la gente inizia a farti domande, parlando super veloce e utilizzando spesso anche il dialetto. Il fatto che non riuscissi a capirli però non ha minimamente ostacolato la loro calorosa accoglienza.

i bambini di Ampasimanjeva, Madagascar

Bambini ad Ampa

Mi avevano detto che mi sarei sentita sola, e in realtà mi sono ritrovata sempre circondata da persone: le suore (che mi stanno aiutando tanto, sanno l’italiano e sono il punto di riferimento per qualunque tipo di bisogno), i bambini della scuola dove aiuto la Madame, bambini che in realtà vedo poi ovunque perché sono sempre qua in giro (non è che abbiano proprio tanto da fare), i dipendenti dell’ospedale che ogni tanto passano dal nostro bureau, e i malati che vengono qui per curarsi. In modo particolare i malati di tubercolosi, che devono vivere qui per i primi due mesi della terapia, e da cui andiamo tutte le mattine per provargli la febbre e distribuire loro le medicine. Non hanno davvero nulla da fare qui, ed è bello, nel tempo libero, poter andare da loro, giocare a calcio (anche se a dire il vero di solito io guardo), giocare a UNO (mettere in premio dei biscotti attira sempre molti giocatori!) e fare due risate (per fortuna la risata è contagiosa e non c’è bisogno di capire cosa stanno dicendo!). Anche a loro poco importa che uno parli perfettamente malgascio, a loro interessa solo stare in compagnia, dimenticare per un po’ che sono malati e che sono obbligati a stare qui, e per questo non c’è bisogno di parole.
Come avrete potuto intuire l’ostacolo della lingua per me è stato molto forte. Il primo mese qui ad Ampasimanjeva non vi nascondo che non è stato proprio una passeggiata. Essere accolta così serenamente, con semplicità, con gratitudine e con tanta gioia per il mio arrivo e sentirsi incapaci di ricambiare è faticoso. È faticoso imparare ad ascoltare, anche senza capire; è faticoso cambiare completamente i ritmi della giornata; è faticoso imparare ad aspettare, ad avere pazienza, a vivere la giornata senza fare troppi programmi; è faticoso ammettere le proprie difficoltà e soprattutto è faticoso chiedere aiuto. Ecco, all’inizio Ampa è stata tutto questo. Poi piano piano ho imparato a sfruttare i momenti di preghiera per affidare al Signore le mie fatiche, ho imparato a stare in mezzo agli altri, ho imparato a ricambiare la loro accoglienza con piccoli gesti, tanti sorrisi e ogni tanto anche qualche figuraccia. Condividere i miei pensieri con la Cristina (l’altra volontaria che è qui da più di un anno) mi sta aiutando a prendere coraggio, a sentirmi più sicura. E piano piano (mora mora come direbbero qui) sto scoprendo la bellezza di Ampa, la bellezza dell’essenzialità e della semplicità con cui si affrontano tutti i giorni, senza tante distrazioni inutili, la bellezza di avere tempo per scoprirsi, tempo per pregare, tempo per fermarsi, e tempo per divertirsi. Sono contenta. Questi primi mesi sono stati più un cammino di crescita personale che forse avevo bisogno di fare prima di iniziare a sentirmi un po’ a casa anche qui, nel posto giusto al momento giusto.
Detto questo concludo con il saluto malgascio:
Misaotra betsaka! Veloma! Mandrampioana!
(Per quelli che ancora non sanno il malgascio: Grazie mille! Arrivederci! A presto!)
Tanti saluti da Ampa!
Giulia