Filippo racconta dell’ Estate in Missione

 

L’esperienza mia e degli altri nove ragazzi e ragazze che sono partiti con me per il
Madagascar è cominciata il 26 luglio, con l’arrivo nella capitale Antananarivo, dove ad attenderci c’erano Debora e Alice che ci hanno guidato ed accompagnato per tutto il nostro viaggio, aiutandoci ogni volta a capire dove eravamo finiti oltre che con la lingua e la cultura Malgascia. 

Dopo due giorni di viaggio, abbiamo raggiunto un piccolo villaggio nella foresta, chiamato
Ampasimanjeva. Lì, la diocesi di Reggio Emilia, in collaborazione coi medici e il
personale locale, gestisce un ospedale, offrendo servizio agli ultimi degli ultimi. Il
nostro compito in tale luogo è stato quello di disegnare, nel reparto maternità
dell’ospedale, un murales che potesse aiutare le mamme nel riconoscere le
complicazioni legate alla gravidanza. La seconda tappa è stata Manakara, piccola cittadina sulla costa, dove don Simone Franceschini e don Luca Fornaciari svolgono la loro missione di sacerdoti in una neo-nata parrocchia. Il nostro servizio in tale tappa è consistito nell’aiutare i giovani educatori del posto in alcune attività del campo estivo della parrocchia. Inoltre, abbiamo potuto conoscere e vedere concretamente alcuni progetti sociali portati avanti dai Don: la nuova Università di Farafangana, gestita da Don Luca, e la ferme di don Simone, dove giovani famiglie imparano le tecniche agricole e manageriali indispensabili per raggiungere l’indipendenza a livello economico. Da lì, ci siamo addentrati nuovamente nell’entroterra, riavvicinandoci gradualmente alla capitale. Nelle varie tappe, abbiamo avuto modo di venire a contatto con varie realtà che provano a contribuire nello sviluppo locale: Educatori senza frontiere, che gestisce scuole e offre formazione ad educatori malgasci a Fianarantsoa; Tsiry Parma, che porta avanti campagne di riforestazione nell’area intorno ad Ambositra; il Foyer di Ambositra, gestito da padre Olivier, dove persone temporaneamente non autosufficienti trovano accoglienza e cura; infine, le scuole gestite da Don Luciano e altri Orionini in una delle baraccopoli più problematiche della capitale. Tutte queste associazioni e ordini voglio ringraziare di cuore per la loro opera. È stato un viaggio, una missione, ricca di conoscenze e incontri. Io e gli altri campisti con me, siamo arrivati in questo paese distante e isolato dal mondo con la speranza di poter essere utili, anche nel nostro piccolo. Utili a qualcosa. Quando però si arriva a contatto con una realtà in cui le persone vivono in baracche di legno, in cui sebbene l’agricoltura sia l’occupazione principale non vi è sufficiente cibo per sfamare tutti, in cui è quasi impossibile spostarsi, date le scarse condizioni delle strade e l’elevato costo dei mezzi disponibili; ecco, quando si arriva a contatto con un ambiente del genere, si capisce ben presto come non si possa fare molto per aiutare e difficilmente si possa essere utili a qualcosa, sia che si stia poche settimane come noi sia qualche anno come le missionarie che ci hanno fatto da guida. A tal proposito, mi è rimasta particolarmente impressa una frase che disse Alice, una delle due ragazze –insieme a Debora- che ci accompagnavano, in una condivisione durante l’esperienza: “Il principio alla base della mia missione è la mia inutilità”. Alice era arrivata giusto qualche
settimana prima di noi e sarebbe rimasta lì per tre anni. E allora perché farsi 7000km di volo per andare dall’altra parte del mondo?
In primis, come disse Alice appena dopo, per conoscere le persone e intessere relazioni. Relazioni con il personale dell’ospedale di Ampasimanjeva, che ci hanno accolto e fatto sentire a casa fin dal primo giorno; con gli educatori del campo estivo, insieme a cui abbiamo fatto servizio e condiviso momenti di gioia e convivialità; coi tantissimi bambini che dovunque andassimo ci seguivano o semplicemente ci offrivano il loro sguardo curioso e disarmante… e potrei nominare tanti altri ancora. Anche nelle prime due tappe, quelle più ricche di servizi pratici, quello che è rimasto del nostro passaggio non è stato qualcosa di utile, ma di bello: il murales per aiutare le mamme ad Ampasimanjeva, i bei ricordi con gli educatori a Manakara. Solo nella cura reciproca e nelle relazioni che si instaurano si può trovare la ragione della propria presenza lì. 
In secondo luogo, credo che sia una tendenza comune a tutti omogeneizzare e racchiudere sotto un’unica etichetta differenti gruppi di persone, tanto più si è distanti de esse. Per la maggior parte della gente, “Madagascar” significa Africa –anche se Africa non è-, e “Africa” significa povertà e bambini che ti sorridono tutto il tempo. Ebbene, come dissi agli altri campisti durante la condivisione finale della missione, questa esperienza ci ha fatto vedere che non tutti i bambini sorridono, ovvero ci ha permesso di dare un volto umano alle vuote etichette di cui di solito facciamo uso. Gli sguardi dei bambini -così come quelli degli adulti- lasciano trasparire talora curiosità, talora scherno, talora rassegnazione. La stessa rassegnazione che ho potuto vedere negli occhi dei bambini nella favela di Antananarivo, come se in mezzo ai rifiuti e all’acqua putrida mi dicessero: “questo è il posto dove vivo”. E io non potevo farci niente. Mai così tanto nel corso della mia vita ho provato un sentimento così forte di compassione. Insomma, girando per il Madagascar, abbiamo osservato come sotto l’etichetta comune si celi un’incredibile varietà di persone, diverse per il loro status, il loro vissuto, coi propri problemi e stati d’animo, proprio come noi. In pratica, abbiamo visto che chi solitamente a casa si considera “diverso” è uguale a noi. Non solo, in quel contesto eravamo noi i “diversi”. E questo ovviamente non può non suscitare molti interrogativi su di sé e sulla relazione con gli altri. Non nego il disagio provato a volte quando, camminando per strada, le risate o gli sguardi sdegnosi si versavano su di noi. Non è stato piacevole ricevere quegli sguardi pesanti, che giudicavano in base al colore della pelle, in un paese dove è raro vedere persone dalla carnagione bianca. Dopotutto, eravamo noi gli stranieri, vestiti di tutto punto, a camminare facendo foto di qua e di là, come se non avessimo altro da offrire che invadere la privacy per rubare scatti da mostrare in un altro paese. E mi è venuto naturale fare un paragone con qui, dove invece la presenza di minoranze etniche è consolidata. E mi è venuto naturale pensare che, anche qui, le minoranze etniche vengano trattate quando non con discriminazione con sufficienza, sebbene viviamo in una società ormai interculturale, a differenza del Madagascar. E vivere in un altro paese
quello che loro vivono qua a volte in maniera ancora più marcata, nonostante la pluralità della nostra società, fa cambiare il modo con cui ci si relaziona agli altri, con
meno diffidenza, più ascolto.

Quindi, che cosa rimane di questo campo missionario? Di sicuro, è rimasto un nuovo gruppo di amici, una splendida compagnia di 12 persone unite dall’esperienza condivisa insieme. Rimane l’aver conosciuto un paese e il suo popolo, portando con sé molte questioni, dubbi e riflessioni, alcune dei quali vi ho riportato. Rimane un’indimenticabile esperienza, per la quale sono grato a Don Alessandro, a tutta la parrocchia e la chiesa di Reggio Emilia. E che cosa poter fare con quello che è rimasto? Sinceramente, non ne sono sicuro; intanto, riportare e restituire la mia esperienza il più possibile, agli amici e nella comunità. Come disse Don Luciano, il prete italiano da 25 anni in Madagascar che ci ha mostrato la baraccopoli: “Magari vedrete i frutti di questa esperienza tra qualche anno, quando agirete in un modo piuttosto che in un altro, oppure opterete per una scelta piuttosto che per un’altra”. Ecco, concordo appieno con lui; quel che è certo è che un ulteriore germe di cura verso gli altri è rimasto in noi, e sta a noi coltivarlo ogni giorno. Grazie.

Filippo