Per restare, con uno sguardo nuovo
E’ stata una settimana difficile nella quale abbiamo toccato e visto incarnata la vocazione del prendersi cura. Gesti, parole, azioni generate nel dolore, quello che non puoi spiegare, quello che sei tentato di razionalizzare, di collocare, ma non si colloca.
Ciò che ho visto e vissuto con don Filippo in quei giorni poteva assomigliare alla capacità di Maria di sostare sotto la croce; tutto aveva un’ intensità quasi desiderabile. Un popolo e una comunità “stava” in mezzo ai crocifissi.
Chi ha attraversato i luoghi del dolore lo sa: è un mistero grande questo: si viene attirati.
Se ci si allontana di qualche passo, avvertiamo subito quasi una nostalgia di ritornare, di non andare via, di non desiderare altro che stare lì per assaporarne l’intensità.
Il dolore non ammette finzioni: chiede e chiama alla verità. Chiama ad essere povero in tutto quello che ti porti dentro.
Tutti i nostri progetti sull’ospedale di Ampa, dopo tre anni di pandemia sembravano persi; ora, nel terzo Natale, quando 11 giorni prima si era parlato di rilanciare il progetto della città “Ero malato”, presente a Reggio il dott. Martin, improvvisamente questo incidente: tutta la comunità interessata è stata spazzata via, chiamata al Cielo. Perché questo è avvenuto? Perché nelle notti liete del Natale, in un tempo legato alla vita, in un tempo che ha il sapore della speranza?
Incapace di capire la lingua, ero costretto a guardare i volti e capire i movimenti delle persone. Ero immerso ora dopo ora in un dialogo quasi infantile, quello che intesse una madre quando i suoi figli ancora non parlano: li studia, li scruta, empaticamente li raggiunge.
Mentre cercavo le ragioni e cercavo di razionalizzare l’accaduto, ero immerso in una chiesa povera, che non ha né strutture né strategie, ma offre un senso. Sentivo le voci, i rumori, la voce di don Filippo che provava a meditare su questa chiamata: cosa ci dice questo evento dentro il tempo del Natale?
A Tongarivo tutto questo era avvolto da questa bambina che deve nascere; lei ha salvato la vita ai suoi genitori che non sono andati in quella gita – pellegrinaggio, perché imminente la sua nascita.
Un intreccio pasquale in un duello tra morte e vita. Se Giada e Camilla non fossero rientrate…quanti se… umanamente ci si scopre inclini a scivolare nella tentazione di spiegare l’accaduto, di paralizzare le proprie azioni di quelle ore. Invece i poveri vanno avanti. I poveri hanno giocato un ruolo straordinario perché gli ammalati rimanevano. Lì in mezzo bisognava e bisogna andare avanti.
A Tongarivo c’erano due suore, anziane, arrivate per la circostanza, molto provate; una alta e una bassa: profumavano di sapienza e di regalità. Sapevano mixare, nella confusione, la ferita con l’ironia ed hanno saputo sostenere la comunità, consapevoli che nella vita accadono avvenimenti avversi. Le ho viste, passatemi il termine, danzare, dirigere quello che si doveva fare come si era sempre fatto.
Quando ho saputo che Martin e Nivo erano stati sposi all’altare ho pensato: questa è un’altra chiamata che dà un senso profondo al matrimonio. Da una parte il tragico destino, dall’altra giungere insieme alle nozze eterne è il senso del matrimonio. Nivo è stata una donna forte e coraggiosa che ha saputo tenere la barra del matrimonio ben salda, in una rinata serenità sponsale della quale hanno gioito anche i figli.
Quando sono arrivati i corpi dei dottori ad Ampasimanjeva sono stati tolti dalle bare perché tutta la comunità doveva vedere i loro volti e rendere onore a chi “era partito”.
Dal 27 dicembre al 2 gennaio le ore si sono susseguite caotiche; avevamo la necessità di prenotare le auto e gli autisti, ma dopo le 7 di sera questo è impossibile. Così quando è arrivata la notizia, dopo i funerali delle prime vittime, della morte di suor Odette, la quale dopo l’incidente era cosciente ma dava segni di gravità, ed è stata per questo trasferita in aereo in capitale, la situazione è precipitata. Don Filippo voleva partire subito, di notte, e così ha fatto, con le suore, per raggiungere la capitale, dopo la giornata pesantissima dei funerali. Quando è arrivata, la bara di Odette era di assi di pallet. L’arrivo della salma di Odette è stata accolta con tutte le suore che cantavano intorno, poi la velazione. E’ stato molto nuziale, molto intimo. Mi sentivo estraneo.
Immediatamente dopo l’incidente centinaia di persone sono accorse dai dintorni. Non ci sono stati rilievi; hanno tirato giù i corpi dall’auto e posati per terra, in una rassegnazione che per i malgasci è naturale. E’ accettazione degli eventi, senza domande, inchieste o denunce. Nel nostro mondo il trapasso è accompagnato da un rituale che credo dimostri un rapporto non sano con la vita e con la morte; ci preoccupiamo di ritoccare i corpi dei defunti, abbiamo un’idea di diritto per la vita: questo confronto penso che ci faccia bene.
Dopo le esequie, ad Ampasimanjeva ci sono stati giorni difficili. C’ero stato da poco, a novembre, e mi ricordo di Justine, delle suore, dei novizi. Abbiamo voluto ascoltare i dipendenti per capire il loro stato d’animo, per assestare la situazione, ricompattare una comunità. “E’ morto dio, è morto un dio” hanno detto. Per 37 anni il dottore ha guarito, salvato e sanato vite. Negli incontri con il personale abbiamo capito che dovevamo offrire loro un segno, una presenza; ed è da qui che è nata l’esigenza di non poter venire via senza dare e dire che qualcuno di noi, un po’ per tutti, rimanesse giù. Chiara Ferretti starà in Madagascar un mese: lei rappresenta un segno affidabile che può dialogare e capire, non direttivo. E’ molto importante questo passaggio perché occorre evitare il prendere possesso della situazione per risolverla: quella è casa loro. Questa è la scelta sulla quale abbiamo ragionato in questi anni col rischio di perdere tutto. Ad oggi era più semplice far scendere una figura gestionale esperta e conosciuta, che in un tempo breve avrebbe potuto dipanare questa intricata matassa. Ora i protagonisti sono loro: personale, dipendenti, religiosi, diocesi di Fianaransoa. Devono decollare e tenere la rotta: devono comprendere ed attuare con i loro criteri la conduzione di un ospedale; noi dobbiamo saperci mettere al loro fianco senza prendere possesso.
La tentazione nostra di prenderne possesso in questo momento per il loro bene è molto grande.
E’ importante invece in questo momento per noi rimanere fedeli a quello che abbiamo attuato, mettendoci in ascolto di come loro vorrebbero condurre le cose. Questo vuoto è pedagogico, lo dobbiamo lasciare perché serve per attivare loro. Non dobbiamo riempirlo noi.
Dobbiamo rivestire di nuovo significato il prendersi cura; l’offerta al terzo mondo pacifica la nostra coscienza ma non opera cambiamenti nella mentalità locale. Dobbiamo imparare a servire questi fratelli più piccoli con uno sguardo al loro sviluppo ed autonomia, senza dimenticare mai la luce che loro rappresentano per noi. Lo loro povertà li ha legati in questo evento così doloroso; questo farsi carne l’un l’altro, le suore con i poveri, ci parlano di Cristo fatto uomo, di Gesù che esprime l’amore del Padre fino alla fine, fino al fallimento apparente di morire solo e rinnegato.
La gioia vera sta nel morire per gli altri: due suore e due giovani cuoche, tutte con la disponibilità di voler continuare, di non lasciare mi parlano della urgenza di imparare ad amarci tra di noi, e solo allora possiamo andare alla mensa dei più piccoli, altrimenti profaniamo la mensa, profaniamo l’Eucarestia. Profaniamo i più piccoli, li prostituiamo, perché ci andiamo per noi, per una estetica, non ci andiamo per un dono che ci arricchisce e ci insegna. L’esperienza della missione per noi è necessaria perché purifica il nostro cuore, la nostra mente, le nostre mani.
“Io ho davvero la necessità di stare con te. Permettimi di lavarti i piedi”
Questo dobbiamo ripetercelo dentro, sempre, perché se manifesto l’amore, esso per natura mendica l’amore e l’amore non si rassegna. L’amore lo vedevo: un fermento silenzioso di suore e di fratelli che vanno avanti.
“Con vincoli d’amore ti attirerò”
Se vogliamo prevalere togliamo il senso della vita eterna e siamo da biasimare molto di più di chi non crede.
In questo vuoto che si è creato già germogliamo semi: la diocesi di Fianaransua col vescovo e con padre Hilarion si è attivata; il padre è sceso ad Ampa, ha partecipato agli incontri col personale, ha ascoltato, è stato costruttivo e positivo.
Invece a Manakara ho percepito la solitudine. I sacerdoti e l’Enrica adesso rimangono soli. Hanno perso persone con le quali erano in frequenti rapporti di collaborazione: prima don Ganapini, poi Luciano, adesso Martin, don Didier, suor Justine. Ti senti mancare il terreno sotto i piedi e lo cogli perché fare comunità con i Malgasci non è semplice. Preghiamo per loro, per i loro progetti, soprattutto per questo ultimo alla Ferme dove 10 famiglie potranno imparare a lavorare la terra, potranno far studiare i figli, e dopo un anno usciranno con una dote di attrezzature ed animali per continuare a coltivare ed allevare sulle loro terre di proprietà.
Vi lascio un ultimo flash. Alla fine della messa, dopo 3 questue, offrono caramelle ai bambini. Questi si mettono in fila e con ordine le prendono. Un ospite della Casa di Carità si alza e ne prende 3: una per me e una per suor Celestin.
Questa per me è la sintesi. E’ Epifania!
Vedere la naturalezza con la quale questo ospite compie questo gesto mi ha parlato di Epifania, di condivisione di quello che abbiamo. Con la sua semplicità ha fatto la predica più bella, ha portato un annuncio: era più buona la caramella se la mangiavamo tutti, anche se ne mangio di meno.
Ecco l’augurio che faccio a ciascuno di voi, a noi e a me: di non sprecare queste caramelle, perché il Signore non le fa mancare. Forse noi rimarremo piccoli, e questo è un bene, ma sicuramente avremo tutti qualcuno che ci offre gratuitamente qualcosa, e ci chiama a vivere, cioè a spezzare il pane, a condividere quel pane che è la vita di Cristo in ciascuno di noi.
I Malgasci credono nell’accettazione in senso positivo della vita: domani ci sarà qualcuno, domani ci sarà qualcosa, domani la natura ci verrà incontro. Domani Dio verrà a noi con qualcos’altro. Forse non accumulano, e dovrebbero imparare un po’ a tenere, a risparmiare però loro vivono di Provvidenza di una terra molto generosa.
Cristo dice: “Andiamocene altrove”, cioè non prende possesso. Sarebbe stato facile per Gesù rimanere lì, in una confort zone dove ormai aveva conquistato tutto. C’è un’urgenza che bisogna mantenere. Ecco la missione del Figlio, ecco perché siamo in zona Madagascar, ecco perché dovremmo tenere le nostre missioni come segno perché abbiamo bisogno di ricevere la carità, per chi ce la può offrire, una carità che forse subito ci disorienta ma ci abitua, come la piccola goccia che scava la pietra.