Fedeli al proprio nome: il Rwanda e le Case Amahoro

 

di Paola Mazzali e Giorgia Nicoletti

In Rwanda il nome è una cosa importante. È un progetto: una chiamata a diventare il nome che porti. A 23 anni dalla loro nascita, possiamo dire che le Case Amahoro, case “della Pace”, sono sempre più fedeli al proprio nome, scelto dopo un genocidio ancora visibile nei tanti memoriali sparsi per il Paese. Si respira una pace che è frutto della fraternità, della piccolezza, della preghiera incessante che sale dalle cappelle, della voglia di andare avanti ogni giorno, sapendo di essere ben custoditi.

La vita nelle tre case Amahoro di Mukarange, Kabadondo e Bare è molto semplice ma non altrettanto facile. Due o tre responsabili laiche ed alcuni volontari delle parrocchie si prendono cura di una dozzina di malati di vario tipo: persone disabili, anziani, bambini, ragazzi con disturbi mentali. La giornata si alterna tra preghiera e lavoro, in casa e nei campi, dalle 5 del mattino alle 20, quando malati e volontari si avviano verso il letto, perché col buio tutto si ferma. “Sto alla Casa Amahoro perché stare insieme ai malati mi dà pace al cuore e gioia” – dice Egidia, una delle responsabili. E questa pace e questa gioia sono realmente palpabili negli occhi delle volontarie che da 10 o 20 anni vivono nelle case in totale donazione.

Con l’indipendenza sempre maggiore delle Case Amahoro dagli aiuti di Reggio Emilia, la comunità cristiana sta iniziando a farsi carico dei propri fratelli più piccoli in modi diversi. Le parrocchie, grazie alla sensibilizzazione svolta dai parroci stanno collaborando affinché i parrocchiani contribuiscano al sostentamento delle case: a Mukarange l’abbe Jean D’Amour ha creato la cassetta “Aiuta la casa Amahoro”, in cui inserire donazioni. A Kabarondo l’abbé Aristide ha coinvolto le comunità di Base, dando a ognuna il compito di passare una volta a settimana per svolgere un atto di carità: pregare, svolgere un servizio, portare dei beni o del cibo. A Bare la responsabile di casa è entrata nel consiglio parrocchiale, luogo in cui vengono prese decisioni per la casa sia dal punto di vista economico che delle nuove accoglienze. Anche i distretti, dopo il covid hanno iniziato a fare delle donazioni, nella consapevolezza che con le Case Amahoro la chiesa di Kibungo si sta prendendo cura di persone fragili che non avrebbero altre strutture in cui essere accolte.

La diocesi, ancora in attesa di un Vescovo tutto per sé, ha allargato la cura delle Case Amahoro alla zona pastorale di riferimento. E così nuovi volontari arrivano anche dalle parrocchie limitrofe, e vengono scambiati tra le tre Case Amahoro, per offrire sollievo a quelle che vivono periodi più intensi. A Kansana, nuova parrocchia distante 3 ore a piedi dalla più vicina Casa Amahoro, Vestine – responsabile dei volontari – ci racconta: “per noi andare alle Case Amahoro è come fare un pellegrinaggio per incontrare il Signore e tornare a farlo anche qui sulle colline, con i malati della nostra parrocchia”. L’abbe Bizimana Viateur, curatore spirituale delle 3 Case Amahoro e vicario di questa parrocchia conferma che il servizio alla Casa Amahoro si è rilevato una palestra e ha portato molto fermento nella Caritas parrocchiale e nel gruppo San Vincenzo che si prende a cuore i malati del territorio.

Durante il tempo del covid, le Case Amahoro, come tutto il Ruanda, non sono state particolarmente colpite, grazie alla vita all’aria aperta, al clima mite e alle vaccinazioni. “La cosa che più ci ha tolto vita è stata non poterci salutare con la mano, non poterci incontrare”, racconta il parroco di Bare, padre Damacien. “Durante il covid abbiamo avuto paura per gli amici italiani, temevamo di non vedervi più” aggiunge Josefu, un malato storico della casa di Mukarange. Dopo questo tempo e l’aver sperimentato un lungo periodo senza visite dei volontari italiani (5 anni circa) da tutte le case chiedono con forza di mantenere stretto il nostro legame. Ci racconta l’abbe Bizimana: “Anche senza soldi, le vostre visite sono necessarie, ci danno forza, aiutano i volontari a motivarsi e ad andare avanti. Per noi vedere gli italiani che vengono qui è un segno forte. Quello tra le nostre diocesi è un legame di sangue. All’inizio non capivamo cosa voleva fare don Gigi, mettere insieme questi malati sembrava una follia. Oggi abbiamo capito e siamo grati agli italiani per questo dono”.

Una visita breve la nostra, 10 giorni. Sufficienti per intravedere questi germogli. Le case Amahoro sono fedeli al proprio nome e la comunità cristiana sta iniziando, non senza problemi, a farsi carico delle proprie case (ma come dice l’abbe Viateur Bizimana “noi siamo abituati ai problemi, quelli non fanno testo”). E in questi pochi giorni fatti di abbracci, di tavole condivise, di rosari, di canti e danze, abbiamo ritrovato belli i nostri piedi, piedi di ospiti attesi da tempo, piedi di “messaggeri” che annunciano e ricevono la pace. Un ruolo privilegiato attraverso il quale abbiamo condiviso notizie della nostra chiesa reggiana, del CMD, della Famiglia delle Case della Carità e ascoltato la realtà e i desideri delle comunità ruandesi, tornando ancora una volta in Italia edificate dalla fede e dalla forza di cuore di chi abita le Case Amahoro. E così abbiamo iniziato a immaginare un domani dove la sorellanza tra le nostre diocesi continuerà a essere uno scambio di amicizia, di visite, di testimonianze di fede, nella certezza che questo continuerà a nutrire la chiesa ruandese così come quella reggiana.